CULTURA – La moglie Jane sta aiutando un giovane Stephen Hawking a infilarsi un maglione. Il cosmologo, già sofferente nel corpo, è seduto in pigiama sul letto, da qualche tempo spostato in soggiorno perché le scale non sono più una via praticabile. In quel momento, con la maglia infilata a metà, la figlia Lucy ancora piccolissima, comincia a piangere nell’altra stanza. «Vai», dice Stephen: può aspettare. E lì, osservando il fuoco scoppiettare nel caminetto attraverso le trame della lana, capisce qualcosa, arriva a una conclusione determinante nel suo studio sulla natura del tempo. «Jane, ho avuto un’idea» è l’eureka lanciato al ritorno della moglie. Così, la sceneggiatura di La teoria del tutto risolve con l’epifania, affidando all’ispirazione del genio al momento o alla mano invisibile di qualche musa la risoluzione di un problema scientifico e intellettuale.
Lo scienziato Stephen Hawking del film, interpretato da un bravissimo Eddie Redmayne che riesce a recitare con le sopracciglia e poco altro, come già è avvenuto per l’Alan Turing di The Imitation Game o il John Nash di A Beautiful Mind, viene ridotto a un genio chiuso ermeticamente nelle proprie elaborazioni cerebrali che, alla stregua di un poeta maledetto o un pittore romantico, trova il lampo in un dettaglio ignorato dai più. Questo stereotipo della genialità è forse figlio di un equivoco di fondo che riguarda una pellicola come La teoria del tutto: è un bio-pic, come si dice in gergo, pensato per raccontare a un grande pubblico la vita di un uomo diventato grande scienziato. Per quella non serve accettare la sfida di cercare di raccontare i mille pensieri, le sconfitte intellettuali o i piccoli avanzamenti quotidiani del lavoro in una maniera originale, ma è sufficiente accontentarsi del luogo comune del genio (malato) che da solo riesce laddove mille altri hanno fallito.
La conferma dell’interesse per l’uomo Stephen Hawking (e meno per lo scienziato) viene dall’ispirazione originale per il film, il libro di memorie della prima moglie Jane Wilde, Travelling to Infinity: My Life with Stephen. A interpretarla è una brava Felicity Jones che ha il volto giusto per interpretare quel sergente di ferro che a poco più di vent’anni decide che il fidanzato nerd non morirà dopo due anni, come pronosticato dal medico che diagnostica la malattia del motoneurone al giovane fisico, ma che riuscirà ad avere una vita e una famiglia normale assieme a lei. E allora il film assume soprattutto una connotazione da melodramma, con la malattia sullo sfondo di una grande storia d’amore che, però, si interrompe dopo oltre vent’anni e tre figli perché il cosmologo “paziente ideale” si innamora dell’infermiera Elaine, che diventerà sua seconda moglie.
Il film, quindi, qui traballa ancora una volta, perché di Stephen Hawking impariamo a conoscere lati del carattere insospettabili in un uomo così colpito nel corpo: un umorismo e un’ironia sempre pronti, una grande passione per le donne (vedi alla voce: abbonamento a Penthouse in combutta con l’amico fisico Kip Thorne), una voglia di comunicare fuori dall’ordinario. Sappiamo, invece, poco delle motivazioni delle sue scelte (non era più innamorato di Jane? Che rapporto ha con gli amici, che sono poco più che comparse nel film? E con i colleghi?). Ma ancora una volta, si tratta di un equivoco, perché il film tratto dal racconto della prima moglie non può che essere un resoconto parziale, monco per definizione.
La storia di Stephen Hawking e Jane Wilde è soprattutto la storia di una coppia che negli anni Sessanta di Cambridge cerca di vivere una vita familiare normale, quando uno dei due normale non è: perché malato di una malattia che, sulla carta, non ammette speranze di vecchiaia e perché il cervello di Stephen, sempre lucido, è uno dei più brillanti della sua generazione. La macchina da presa sorvola rapidamente i risultati scientifici di Hawking (la “brillante” tesi di dottorato, il cambiamento di prospettiva negli anni successivi, le scoperte su Big Bang e singolarità) e invece si concentra sull’umanità di un amore che sfiorisce, un rapporto frustrante con il proprio corpo e la semplice difficoltà di essere Stephen Hawking.
La teoria del tutto è un film che probabilmente porterà James Marsh, famoso come documentarista per due capolavori come Project Nim e The Man On Wire, a fare il salto definitivo verso il lungometraggio di fiction, previo ritiro di qualche premio. È merito soprattutto suo, e di due interpretazioni molto solide, se il film non deraglia davvero, appoggiato com’è su di una sceneggiatura di routine che si ferma sempre sulla soglia del coraggio e della sfida, ma anzi rimane godibile nella sua struttura romantica da superamento delle avversità. Da spettatori, basta semplicemente non aver coltivato le aspettative sbagliate.
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