Giovanni Belzoni, un Indiana Jones padovano alla conquista dell’Antico Egitto
Storia di uno scopritore di tombe che contribuì a rinvenire i tesori archeologici della Valle del Nilo e ispirò George Lucas per la figura di Indiana Jones.
A quel tempo Timbuctù era un luogo sospeso tra realtà e mito, un Eldorado piantato nel mezzo del Sahel, il “bordo del deserto” in arabo, capitale di uno dei grandi sultanati che l’Islam aveva fondato espandendosi nel Maghreb, l’occidente visto dalla Penisola Araba. In tanti avevano provato a raggiungerla, nessuno aveva fatto ritorno. E non lo ha fatto nemmeno Giovanni Battista Belzoni, che di questa storia è il protagonista, e che è morto il 3 dicembre del 1823 tentando di arrivarvi dal Golfo di Guinea, risalendo il corso del Niger.
A dire il vero non andò molto più in là della città portuale di Gwato (o Ughoton), nell’attuale Nigeria, dove la dissenteria se lo portò via rapidamente. Un compagno di viaggio inglese, il signor Houston, lo fece seppellire sotto a un albero, con la speranza che tutti gli europei che sarebbero passati di lì avrebbero contribuito a tenere pulita e in ordine la tomba. Ora, quanti europei potessero effettivamente avere occasione di transitare da quelle parti e, anche dovendolo fare, avessero idea di chi fosse Giovanni Belzoni, può essere incomprensibile per noi oggi. Ma all’epoca, un fermento senza precedenti percorreva tutte le potenze europee: ognuna cercava di accaparrarsi un pezzetto di Africa, con le relative ricchezze. Avorio, legname e, ovviamente, schiavi. E in questo tumulto, Giovanni Belzoni non è uno qualsiasi, ma uno degli scopritori di tombe antiche più in gamba in circolazione che aveva deciso di provare anche la via dell’esplorazione geografica.
Certo, non è particolarmente colto e raffinato nei modi, e sicuramente il suo passato da saltimbanco non costituisce un pedigree da vantare nei salotti buoni. Ma se c’è un uomo che ha contribuito con generosità alla scoperta dei tesori archeologici della Valle del Nilo in Egitto, è sicuramente Giovanni Battista Belzoni.
Inoltre c’è un altro dettaglio per il quale non pare giusto lasciarlo nel dimenticatoio della Storia come uno di quei semplici avventurieri che diventano famosi per una stagione e poi scompaiono dal radar della celebrità. E questo dettaglio ha a che fare con il cinema. Sì, perché pare che alla ricerca di un’ispirazione per un film d’avventura, il regista George Lucas abbia trovato quella decisiva venendo a conoscenza delle gesta di Belzoni: era nato Indiana Jones.
Giovanni Battista Belzoni era, come diceva lui stesso, “di famiglia romana, stabilita da lungo tempo a Padova”, dove nacque il 5 novembre del 1778. In realtà era tutto padovano, ma cercava di darsi un contegno più internazionale. Da adulto era alto più di due metri, con un fisico massiccio e dotato di una forza straordinaria che gli sarà utile durante i faticosi lavori di scavo in Egitto. Ma prima gli fa comodo per guadagnarsi di che vivere sul palco del Sadler’s Wells, locale di spettacolo di Londra. Veniva annunciato come il Sansone Patagonico e il suo numero più celebre è la piramide umana in cui sostiene fino a dieci persone, qualcuno sostiene anche dodici, solamente con la forza dei suoi muscoli. Sempre a Londra, dove si è trasferito perché si sente destinato a imprese più grandi di quelle che gli può offrire Padova, conosce anche Sarah Banne, o forse Dane, che sarà sua moglie e lo accompagnerà nelle sue spedizioni archeologiche.
L’incontro con l’Egitto avviene nel 1815, quando Belzoni è ad Alessandria, alla corte del pascià Muhammad Alì. Si è spacciato per ingegnere idraulico e ha convinto il sovrano a investire nella costruzione di un sistema di irrigazione più efficiente di quanto si possa immaginare all’epoca. Si tratta di una macchina a forza animale che con un complicato sistema di ruote e corde prelevava l’acqua dal fiume e la doveva distribuire sui campi. Una tecnologia non del tutto nuova, ma che avrebbe reso necessari meno uomini per l’irrigazione e avrebbe dovuto ridurre gli sprechi. Con il ricavato dell’impresa ingegneristica, Belzoni è convinto di potersi finanziare l’esplorazione della Valle del Nilo e delle sue immense e ancora parzialmente sconosciute ricchezze archeologiche. Intanto, pensa, potrà anche intessere relazioni importanti con i vari legati europei che sono in Egitto con il suo stesso intento: portare a casa il maggior numero di reperti archeologici possibile. E nel frattempo fare anche scorta di avorio e schiavi per alimentare i mercati occidentali in piena espansione da Rivoluzione industriale e per la nascita della classe borghese.
Il progetto non va a buon fine, soprattutto perché i tempi si allungano e spazientiscono Muhammad Alì. Ma oramai Belzoni ha già messo le basi per cercare di concretizzare i propri sogni di gloria. Il 28 giugno del 1816 riceve l’incarico ufficiale del British Museum per organizzare il recupero di una statua, la testa del Giovane Memnone, che si trova a Tebe, un migliaio di chilometri a sud di Alessandria. In realtà oggi sappiamo che quella statua rappresenta il faraone Ramesse II e ora è in mostra come uno dei pezzi più pregiati della collezione egizia del British Museum. Quindi la prima impresa di Belzoni è riuscita, ma è interessante provare a capire come.
All’inizio dell’Ottocento l’egittologia era ancora in una fase infantile. La campagna d’Egitto di Napoleone, con il ritrovamento della stele di Rosetta, avevano riacceso l’interesse internazionale per gli antichi egizi, ma chi si era avventurato lungo il Nilo non aveva fatto molto di più che arraffare o comperare quello che era visibile a prima vista o poco più. È qui che Belzoni mostra la stoffa di cui è fatto, perché pur non avendo una formazione superiore è intelligente e, soprattutto, sa affrontare problemi pratici con determinazione.
La statua del Giovane Memnone pesa oltre 7 tonnellate e si trova a circa circa 3 chilometri dalla riva dove è approdato con la sua barca. Bisogna trovare un modo per coprire quella distanza con quel “sassolino”. Oltre a mostrare per la prima volta che cosa vuol dire organizzare un cantiere archeologico e impiegare una pianificazione metodica, Belzoni si interroga sulle tecnologie e le tecniche impiegate dagli antichi egizi per la costruzione di quei monumenti. I suoi appunti, tra i primi così dettagliati anche sul fronte delle dimensioni e dei disegni, si inseriscono quindi in quel filone di ricerca egittologica che cerca di dare risposte sulle reali capacità tecniche degli ingegneri dell’Egitto Antico. Misteri che rimangono ancora in parte tali anche oggi.
Per spostare la statua del Giovane Memnone, il padovano fa costruire un’enorme barella al falegname che si è portato dietro da Alessandria: facendola rotolare sui pali permetterà di arrivare alla barca. Ma prima bisogna riuscire a metterci sopra la statua. Con l’aiuto di quattro leve, Belzoni fa sollevare il busto fino a poterci infilare sotto la parte posteriore della barella. Poi ripete l’operazione con la parte anteriore. Una volta caricata, si tratta solamente di farla avanzare un po’ alla volta in sicurezza fino al fiume. Ci vorranno 14 giorni. Belzoni riesce nell’impresa grazie alla sua capacità di trattare con le autorità locali e di coordinare il lavoro di decine di persone che a forza di braccia hanno fatto gran parte della fatica. Sul piano dell’ingegno e del fiuto archeologico, però, le cose migliori devono ancora venire.
Tutto si concentra in due anni gloriosi, il 1817 e il 1818. Prima di ritornare con Belzoni a discendere lungo il corso del fiume, però, vale la pena dipingere il fondale su cui si muove. L’Italia è ancora divisa politicamente, mentre le grandi potenze europee cominciano ad accarezzare l’idea dell’impero coloniale. Per Francia e Inghilterra la supremazia passa anche per la costruzione di grandi collezioni museali: il Louvre e il British Museum. Belzoni, avendo abitato a Londra, ha già le amicizie che lo portano a lavorare per i britannici, ma siamo in un ambiente in cui tutti si conoscono e c’è sempre la possibilità che ti facciano lo sgambetto, dopo che hai faticato, per portarti via la gloria e, soprattutto, i reperti più pregiati. La cosa preoccupa Belzoni perché da, diciamo, freelance deve sempre assicurarsi che quello che scopre gli venga attribuito, altrimenti non vede un soldo.
Il 1817 è una corsa contro i francesi coordinati dal console e legato francese Bernardino Drovetti. Inciso, anche lui è italiano, ma è in Egitto come ufficiale dell’esercito napoleonico nel 1798. Eppure la sua collezione privata è stata il nucleo originario del Museo Egizio di Torino a partire dal 1824. Ovviamente dietro lauto compenso monetario. La rivalità franco-britannica trova una pausa nel 1817, quando l’area di Tebe viene suddivisa in due parti: Francia e Inghilterra potranno scavare esclusivamente nella propria e ad appropriarsi di tutto quello che vi trovano. Qui Belzoni dà un’altra prova di acume e metodo. La Valle delle Porte, com’è detta all’epoca la Valle dei Re, è tutta una tomba, ma si ha la sensazione che il meglio debba ancora essere scoperto. L’ex gigante della Patagonia sonda il terreno palmo a palmo e annota, disegna nel suo taccuino. Fa, insomma, quello che oggi chiameremmo un “rilievo”. Sta cercando delle anomalie del terreno che gli diano indicazione su dove possa nascondersi un’altra porta d’ingresso di una tomba. Così facendo riesce a individuare almeno quattro tombe e a trovare mummie in un territorio che era stato abbondantemente battuto primo di lui. Il metodo paga.
Tra il 17 e il 18 ottobre fa probabilmente la sua più grande scoperta, anzi la più grande scoperta tombale fino al 1922, quando Howard Carter entra nella tomba di Tutankhamon. Si tratta della tomba di Sethi I, figlio di Ramses I e padre di Ramses II, che ha regnato tra il 1294 e il 1279 a. C. Si tratta della più grande tomba della Valle, con un altezza massima di 100 metri e una profondità di 230 metri. Misure che Belzoni ha annotato scrupolosamente nei suoi taccuini di rilievi. Per gli egittologi, ancora oggi, è la “tomba Belzoni”, in onore del suo scopritore. Non male per un fenomeno da baraccone che ha cercato fortuna in Africa. Il motivo per cui lui è riuscito a trovare l’ingresso è che ha notato un cumulo di calcare nella parete rocciosa, un discontinuità che gli fa intuire che lì ci sia lo zampino dell’uomo. Il blocco di calcare, infatti, nasconde un parete di pietre che protegge l’ingresso del tunnel.
Dal punto di vista tecnico, però, l’impresa più gloriosa è dell’anno successivo. Dopo lo spoglio della tomba di Sethi I, Belzoni torna a nord, al Cairo, e comincia a studiare la piramide di Chefren che si ritiene non abbia un ingresso e che sia in realtà una struttura senza camera funeraria. Belzoni non è convinto. Li vicino c’è un’altra piramide, quella che chiamiamo la Grande Piramide di Giza, che è stata aperta molti anni prima. Giovanni comincia così un’altra metodica osservazione del terreno circostante. Non ne parla con nessuno, perché così vicino al Cairo la probabilità che orecchi indiscreti ti rubino le informazioni è ancora più alta. Nel corso dei rilievi all’inizio del 1818 si convince che certi segni visibili sul lato nord siano l’indicazione che sotto al terreno sabbioso c’è l’ingresso della piramide. Ora, bisogna immaginare la difficoltà di convincere i suoi contemporanei che la calce sulla parete della piramide, portata a terra dalla rugiada, ha indurito la sabbia in modo da renderla durissima. Belzoni, a differenza degli altri archeologi, è convinto che una parte della piramide sia, infatti, sotto al terreno e che si debba scavare per arrivare all’ingresso.
Lo scavo è una fatica immane, colpa della calce, e dura in tutto un mese. Ma la fatica ripaga, perché dopo 4500 anni in cui nessun uomo ha messo piede nella tomba di Chefren, Belzoni può entrare nel tempio funebre e incidere nella roccia la scritta “Scoperta da G. Belzoni. 2. mar. 1818.”, una scritta visibile ancora oggi. In realtà i sogni di ricchezza sono traditi. Perché qualcuno nella tomba ci era già entrato, probabilmente nel XII secolo. Belzoni pecorre i 37 metri del tunnel per raggiungere la camera funebre ma non vi trova praticamente niente. Non gli rimane che prendere le misure, fare il suo rilievo nel taccuino e cercare di recuperare un po’ delle spese sostenute con la vendita di qualche pezzo che è riuscito a tenere per sé.
Rientrato in Inghilterra con la moglie Sarah, Belzoni è comunque sempre a corto di danaro. Nonostante abbia scoperto in prima persona sei tombe egizie e l’elenco di reperti che il British Museum possiede grazie ai suoi sforzi occupi diverse pagine del catalogo, il gigante è praticamente dimenticato. Nel 1821 organizza con William Bullock quella che è a tutti gli effetti la prima grande mostra dedicata all’Antico Egitto. Occupa le sale di un palazzo di Piccadilly che William Bullock vuole trasformare in un luogo di spettacolo, un po’ museo, un po’ circo, un po’ teatro. Belzoni ritorna su di un palcoscenico quando, di fronte a una grande folle che fatica ad entrare, effettua live la dissezione di un mummia.
Il successo deve aver fatto sperare a Sarah che fosse arrivato il momento della vita domestica, del ritiro dall’avventura. Belzoni non è più un ragazzo e deve pensare a passare come meglio può gli ultimi anni. Ma lui non è fatto per stare con le mani in mano, e tutto sommato fare il saltimbanco non gli piace più. Nel frattempo le potenze europee cominciano a rendersi conto che per avanzare sistematicamente nel Continente Nero c’è bisogno di intrepidi esploratori che si addentrino oltre le coste. Ecco, allora, Belzoni andare da re del Marocco per chiedergli il permesso di andare alla ricerca di Timbuctù. Un’altra avventura, l’ultima, senza l’amata Sarah, che lo lascia partire presagendo che non lo rivedrà più. Non si possono tenere in gabbia gli uccelli che abbiano assaporato l’ebbrezza della libertà.
Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia. Immagini: Wikimedia Commons
Leggi anche: L’esploratore Giovanni Miani e le sorgenti del Nilo