Nuove prospettive per lo studio della malattia di Kennedy
Scoperto a Trento l'enzima che modificando un recettore scatenerebbe questa malattia neurodegenerativa
RICERCA – Le malattie neurodegenerative sono moltissime e una delle maggiori difficoltà per gli scienziati è riuscire a individuare i meccanismi peculiari di ognuna di esse. Quello che è certo, a oggi, è che per comprendere i tratti simili di queste malattie sarà necessario fare ancora molta ricerca.
“Questa è una precisazione d’obbligo quando si parla di malattie neurodegenerative, per fare in modo che i pazienti possano capire la differenza fra quella che è un’ipotesi, una possibile prospettiva di ricerca che si apre, ma che è ancora solo un’idea, e quello che è invece un percorso già avviato.” A parlare è Maria Pennuto, biologa e ricercatrice presso l’Università di Trento, che qualche giorno fa ha presentato i risultati delle sue ricerche sulla malattia neurodegenerativa di Kennedy al congresso Telethon a Riva del Garda, in occasione del convegno annuale dei ricercatori Telethon.
La malattia di Kennedy, nota anche come atrofia muscolare bulbospinale (BSMA), è una malattia rara che porta all’atrofia dei muscoli degli arti e del viso e colpisce circa un nato maschio su 526 mila ogni anno. Non è fra le forme più gravi di atrofia, perché non coinvolge per esempio i muscoli respiratori, ma è comunque invalidante per chi ne è affetto. La malattia è causata da una mutazione nel recettore degli androgeni.
La ricerca di Maria Pennuto, recentemente pubblicata sulla rivista Neuron, riporta in particolare la scoperta secondo cui un enzima è in grado di modificare il recettore degli androgeni mutato e di renderlo più tossico in pazienti affetti da Kennedy. In altri termini, questo enzima giocherebbe un ruolo dannoso in questi pazienti scatenando il processo chimico che porta poi all’atrofia muscolare.
“Abbiamo scoperto il legame fra il recettore mutato e l’enzima che lo modifica chimicamente, danneggiandolo – spiega Maria Pennuto – e questa osservazione ci ha sorpreso molto perché è antitetica rispetto a un altro meccanismo a noi noto e che riguarda invece una proteina, che ha il compito al contrario di proteggere il recettore dal danno che porterebbe all’atrofia. Come due tendenze che si fronteggiano su un’arena comune, che è appunto il recettore. Il nostro prossimo passo sarà cercare di identificare delle sostanze in grado di inibire l’azione negativa di questo enzima” conclude Maria Pennuto. “In ogni caso qui si tratta di ricerca di base, in laboratorio. Siamo ben lontani dal parlare di terapia.”
Come si diceva all’inizio, da più parti si è sottolineata in questi giorni la possibilità di applicare questa scoperta anche allo studio di malattie come la SLA o il Parkinson, ben più severe della malattia di Kennedy, ma in realtà è necessario procedere con i piedi di piombo. Secondo i ricercatori, siccome le modifiche osservate avvengono in un sito particolare della proteina, potrebbe essere, ma il condizionale è d’obbligo, che questo meccanismo si possa osservare in futuro anche per altre malattie neurodegenerative più gravi.
“Nel mondo ci sono studi in atto in questo senso, ma è bene precisare ancora una volta che si tratta di ricerca di base, in uno stadio cioè molto iniziale del lungo iter che da un’osservazione sperimentale porta alla messa a punto di una terapia.”
Caveat a parte, la scoperta del team trentino è importante perché ha permesso di comprendere il responsabile del modificarsi del recettore che scatena l’atrofia di Kennedy. Per eventuali correlazioni riguardo ad altre malattie, è tutto ancora da capire.
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