Emergenza Xylella fastidiosa in Puglia: facciamo il punto
Il batterio che ha messo in ginocchio gli olivicoltori del Salento si diffonde a vista d'occhio. E non colpisce solamente gli ulivi
AMBIENTE – Tempi duri per la Puglia. La regione, che da più di due anni fa i conti con la Xylella fastidiosa, il temibile batterio da quarantena responsabile del disseccamento rapido degli ulivi del Salento, ora deve vedersela anche con la Francia. Lo stato di Hollande, temendo la diffusione del patogeno nelle proprie zone e giudicando le attuali disposizioni preventive messe in atto dalla legislazione UE (Direttiva 2000/29/CE) inefficaci per tutelarsi dal batterio, con un Decreto del ministero dell’Agricoltura ha vietato l’importazione dalla Puglia di ben 102 specie vegetali a rischio-Xylella. “Un’azione preventiva estrema, lesiva per l’immagine e per l’economia della regione” e che, a detta del governatore Nichi Vendola, “potrebbe essere intrapresa anche da altri Stati membri dell’Unione europea, magari vietando l’importazione di materiale vegetale da tutta l’Italia.”
Occorre precisare che la zona colpita non interessa l’intero territorio pugliese ma un’area delimitata, a sud della regione. Eppure la Xylella fastidiosa fa tremare l’Europa. Sì, perché il batterio che ha messo in ginocchio gli olivicoltori del Salento (in grado di moltiplicarsi nell’apparato linfatico della pianta, causando l’occlusione dei vasi xilematici e il conseguente essiccamento dell’albero malato) si diffonde a vista d’occhio e non attacca solo gli ulivi.
Secondo l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), coinvolta fin dal 2013 nelle attività di indagine, le specie vegetali a rischio di contagio sarebbero molte: agrumi, vite, frutta a nocciolo (mandorla, pesca e prugna), ma anche piante ornamentali e da giardino, come la quercia, l’acero e l’oleandro. Si tratta di varietà molto comuni in Europa, dove è possibile ritrovare anche i vettori responsabili della diffusione del batterio: i membri delle famiglie di insetti Cicadellidae, Aphrophoridae e Cercopidae, insieme al Philaenus spumarius, conosciuti come “sputacchine” o “cicaline”, che succhiando la linfa prima dagli alberi infetti e poi da quelli sani, sono implicati in modo diretto nel veicolare il patogeno da una pianta all’altra.
Timori giustificati, dunque, quelli della Francia, almeno a detta della Commissione europea che, invece di condannare l’iniziativa dello Stato membro la considera in linea con la legislazione Ue. Tra l’allarmismo generale degli agricoltori e la paura di una battuta d’arresto repentina dell’economia pugliese, il problema-Xylella permane. A oggi, infatti, non esiste una terapia certa per debellare il batterio e il piano da oltre 13 milioni di euro studiato per contenere la “peste degli ulivi” appare drastico e dagli esiti improbabili. Il programma, vagliato da un Comitato scientifico nazionale che monitora l’emergenza del Salento e affidato nella sua esecuzione materiale al Commissario del Corpo forestale della Stato Giuseppe Silletti prevede una duplice azione. In primis, l’eradicazione degli alberi infetti e, allo stesso tempo, un attacco massiccio con trattamenti fitosanitari, orientato all’abbattimento degli insetti vettore.
“Si tratta di interventi mirati e, arrivati a questo punto, indispensabili”, sottolinea Veronica Vizzarri, esperta di patologia vegetale del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura e olivicoltura (Cra-Oli) di Rende, in Calabria, in accordo con le disposizioni previste da Silletti. Ma il provvedimento porta con sé forti timori come la possibile desertificazione del Salento, privato dei propri ulivi e irrorato di pesticidi. Paure forse eccessive che, tuttavia, hanno acceso gli animi scatenando manifestazioni cittadine e proteste sul web, lanciate sui social network con l’hashtag #difendiamogliulivi. A contestare il piano-Silletti, però non è solo la popolazione. In una relazione di 262 pagine l’Efsa, che dal 2013 studia l’emergenza-Xylella in Salento, ha specificato che la condizione degli ulivi (colpiti da una variante del batterio che affligge allo stesso modo gli oleandri del Costa Rica), è data anche dalla presenza di un complesso di parassiti, funghi e altri patogeni oltre a quello sotto inchiesta, che contribuiscono al processo di disseccamento rapido degli alberi. Nello specifico, l’Autorità ha sollevato forti dubbi sull’efficacia dell’eradicazione come tattica di contenimento del batterio, rifacendosi alla letteratura scientifica presente e ricordando casi specifici di insuccesso, come quelli di Taiwan e del Brasile.
Anche in Salento, secondo l’Efsa, le probabilità che l’eradicazione vada a buon fine sono poche, soprattutto se si tiene conto della duplice modalità di diffusione del batterio, che ha permesso alla Xylella di insediarsi in zone anche molto distanti tra loro. Una “primaria”, nella quale il batterio, proveniente da un ambiente esterno colpisce una specifica campagna, e una “secondaria” in cui il batterio passa da un albero all’altro dello stesso appezzamento. È proprio la coesistenza di questi due tipi di contagio che ha consentito la diffusione disomogenea della malattia.
A detta dell’Efsa, poi, anche i trattamenti chimici per sterminare le cicaline sarebbero poco efficaci. Gli insetti, infatti, possono ricolonizzare i campi disinfestati in breve tempo o sviluppare delle resistenze nei riguardi degli insetticidi impiegati. Per non parlare degli effetti nocivi sulla salute umana, per i quali fin da subito la Lilt di Lecce, guidata dall’oncologo Giuseppe Serravezza ha giudicato il piano proposto più che rischioso. Come arginare l’emergenza-Xylella? Per l’Efsa la risposta è nella ricerca sul campo, da intensificare per ottenere una valutazione più approfondita su ciò che sta accadendo e per mitigare il rischio di diffusione batterica. Nello specifico, L’Autorità europea per la sicurezza alimentare in collaborazione con il Centro di ecologia e idrologia (Ceh) del Regno Unito, ha vagliato la possibilità di utilizzare un modello matematico per prevedere la diffusione del patogeno nel territorio leccese. Inoltre, un altro progetto pilota, sviluppato in collaborazione con il Cnr di Bari sta studiando il campo ospite del batterio. Per i risultati, però, occorrerà aspettare la fine del 2015.
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