La psicopatia non è una sola
Per niente empatici, crudeli e freddi. Ma anche sopraffatti dalle emozioni. I diversi profili dei giovani a rischio psicopatia, e quelli sui quali si può intervenire
SALUTE – Un impassibile Jack Torrance lupo cattivo. Un freddo Hannibal Lecter che sull’aereo offre un po’ del suo spuntino a base di cervello umano al bambino seduto accanto a lui. Per come siamo stati abituati a immaginarci gli psicopatici, facendoci una cultura magari principalmente cinematografica, lo stereotipo è un po’ dietro l’angolo. Assenza di empatia, crudeltà, freddezza, apparentemente nessun legame emotivo con il mondo circostante.
Ma un recente studio sul Journal of Abnormal Child Psychology, condotto da Tim Stickle e Andrew Gill, suggerisce che fossilizzarci su questo tipo di preconcetto non abbia fatto che rallentare la conoscenza della psicopatia, impedendo spesso delle corrette diagnosi e interventi di prevenzione. Anche laddove avrebbero magari potuto fare la differenza, permettendo di condurre una vita più produttiva e più felice. Ovvero, specialmente sui più giovani.
Ed è proprio su di loro che lo studio si è concentrato: 150 ragazzi e ragazze tra gli 11 e i 17 anni, tutti provenienti da centri di detenzione giovanile e considerati freddi e crudeli (il profilo chiamato CU, callous and unemotional) a causa di gravi comportamenti anti-sociali che li mettevano a rischio di diventare psicopatici una volta adulti. Mentre alcuni di loro corrispondevano effettivamente al profilo della psicopatia, spiegano gli autori della pubblicazione, altri assolutamente no.
«Sembrano freddi e poco empatici rispetto agli altri, ma la loro esperienza emotiva è di grande stress. Hanno elevati livelli di ansia e depressione, emozioni molto forti», spiega Stickle. «Pensiamo che questi ragazzi che si comportano in modo dannoso, antisociale e aggressivo siano immuni ai sentimenti negativi. Ma in realtà abbiamo mostrato che molti di loro non solo non sono immuni, al contrario, sono molto suscettibili».
L’analisi condotta da Stickle e Gill ha permesso di dividere i ragazzi in tre gruppi, che potrebbero secondo loro essere validi anche per gli adulti che si trovano a un punto della psicopatia molto più avanzato: il primo gruppo era quello con i tratti classici della psicopatia primaria (poca empatia, nessuna reazione al dolore altrui), un altro che è stato definito come psicopatia secondaria (con un surplus di emozioni, gruppo prevalentemente femminile), mentre il terzo è stato chiamato low psycopathy delinquent, insomma un profilo sì problematico ma con un minimo legame con la psicopatia vera e propria.
Quale potrebbe essere un approccio promettente, una volta stabilito che la questione è molto meno semplice del quadro osservato finora (di complessità nella riabilitazione abbiamo parlato anche qui)? La psicoterapia cognitivo-comportamentale per esempio, e quella dialettico-comportamentale per gestire meglio le emozioni.
Perché i trattamenti convenzionali per la psicopatia tendono a bypassare le emozioni, spiega Stickle, enfatizzando invece i processi di ricompensa e punizione in modo da cambiare i comportamenti problematici. «Si tratta di un’opportunità per fare le cose in modo diverso e più efficace», spiega Stickle, perché rifarsi a pochi tratti per un test psicologico alla ricerca della psicopatia è limitante. «È necessario osservare molti più casi».
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Immagine: una scena del film “Shining”