Trisomie e diagnosi prenatale
I test genetici non invasivi basati su un prelievo di sangue sono sempre più accurati. Ma costano ancora troppo.
SALUTE – La sindrome di Down, o trisomia 21, è l’anomalia cromosomica più comunemente riscontrata alla nascita e si riscontra in un neonato su 700/1000. La sindrome di Kleinefelter colpisce un bambino ogni 1000, quella di Patau uno ogni 5000 e la Sindrome di Edwards uno ogni 6000 nati vivi.
Nei decenni passati molto è stato fatto, ma a oggi non esistono ancora metodi non invasivi per diagnosticare queste patologie nel feto con un grado di precisione del 100%. Esistono amniocentesi e villocentesi, certo, ma al momento la percentuale di rischio di aborto associata all’esame si aggira in entrambi i casi intorno all’1%.
Negli ultimi 20 anni si è assistito a un progressivo miglioramento delle tecniche non invasive. È notizia di questi giorni che uno studio dell’Università della California a San Francisco pubblicato sul New England Journal of Medicine avrebbe rilevato che il test del DNA del feto sarebbe significativamente più affidabile rispetto ai test standard per la sindrome di Down e per alcune anomalie meno frequenti, perché darebbe meno falsi positivi. Secondo lo studio che è stato condotto su un campione di 16 000 donne, i falsi positivi con questo test sarebbero molti di meno rispetto a quelli segnalati dal test tradizionale.
In realtà questo test non rappresenta affatto una novità, quanto piuttosto un’ulteriore conferma dei miglioramenti della diagnostica negli ultimi anni – spiega Luca Valsecchi, responsabile dell’Unità funzionale di ostetricia dell’Ospedale San Raffaele di Milano, a cui abbiamo chiesto di inquadrare questo nuovo risultato all’interno del panorama più generale della diagnosi prenatale.
«La prima cosa da dire è che esistono due modalità per valutare l’assetto cromosomico del feto. Una invasiva, cioè amniocentesi e villocentesi, che consente la diagnosi di anomalie cromosomiche con una accuratezza prossima al 100%, ma con un rischio di aborto intorno all’1% delle procedure. E una non invasiva, che ha lo scopo di valutare il rischio individuale di anomalie cromosomiche fetali, e va considerata quindi una tecnica di screening». È evidente che nell’ambito dello screening prenatale solo la seconda via può considerarsi percorribile, dal momento che le prime due, amniocentesi e villocentesi, hanno un rischio considerato troppo elevato per essere proposto a livello di screening.
«Bastano semplici calcoli per capire di che cosa stiamo parlando», prosegue Valsecchi. «Se considerassimo le metodiche invasive un test di screening, quindi da eseguire su tutta la popolazione generale, circa 500 000 gravidanze all’anno in Italia, considerando l’incidenza della sindrome di Down (circa 1/1000) e il rischio abortivo di amniocentesi e villocentesi (circa 1/100), per ogni diagnosi di sindrome di Down si causerebbero 10 aborti dovuti alla procedura diagnostica».
Il filone in cui si inserisce il test del DNA citato nello studio è invece quello della diagnosi non invasiva. Il test di screening oggi universalmente accettato è la misura della translucenza nucale che si esegue con un’ecografia alla 12-13° settimana, associata al dosaggio di 2 ormoni placentari (bi-test). «Questo test ha una sensibilità del 90% per la diagnosi della sindrome di Down – prosegue Valsecchi – e per questo negli ultimi 2-3 anni si è cominciato a perfezionare tecniche di analisi del DNA fetale per valutare il rischio di patologie cromosomiche cercandone tracce nel sangue materno, appunto con un semplice prelievo. La buona notizia è che la sensibilità di questi test è molto più alta rispetto ai test di screening tradizionali, siamo poco al di sotto del 100%. La notizia meno buona è che non tutte le anomalie possono essere facilmente individuate in questo modo. Per la sindrome di Turner o per quella di Kleinefelter, per esempio, la precisione è notevolmente minore».
C’è poi il problema dei costi. Un test come questo costa dai 600 ai 1000 euro ed è totalmente a carico delle famiglie. Inoltre, anche se per il medico vige l’obbligo di informare le pazienti su quali siano le possibilità e i rischi, non esistono al momento precise linee guida nazionali in merito.
Ma quale sarà il futuro di questo test? Andrà a sostituire i precedenti? «Forse potrebbe sostituire il bitest – conclude Valsecchi – ma certamente non l’esame ecografico del primo trimestre, insostituibile per la diagnosi precoce di molte anomalie fetali. Gli esami genetici devono integrare quelli ecografici, anche perché le patologie causate da anomalie cromosomiche sono meno del 20% di tutte le malattie che potrebbe sviluppare un feto. Il restante 80% delle patologie che potrebbero colpire un bambino non sono cromosomiche, e sono riconoscibili pertanto solo dall’ecografia e non da test genetici siano essi invasivi o non invasivi».
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