Com’è difficile l’aborto nel mondo
Anche nei paesi sviluppati, l'accesso delle donne a servizi e medicinali adeguati può essere critico
SALUTE – Come vanno le cose in Italia lo sappiamo fin troppo bene: ci sono situazioni in cui l’accesso all’aborto è difficilissimo. Un diritto a metà, come raccontava poche settimane fa la storica Valentina Greco su Internazionale. Il problema, però, non è solo italiano. Anche in altri Paesi ad alto reddito (parliamo sempre di paesi in cui questa pratica è legale e teoricamente disponibile), l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza nel primo trimestre può essere complicato da vari ostacoli, come mostra un articolo appena pubblicato dal Journal of family planning and reproductive health care.
Si tratta di una revisione sistematica, che ha preso in considerazione 38 studi pubblicati tra il 1993 e il 2014 su barriere e facilitazioni (soprattutto barriere!) per le donne che richiedono un’interruzione di gravidanza entro le 12-13 settimane. Gli studi erano per la maggior parte relativi agli Stati Uniti, ma alcuni hanno riguardato anche Australia, Nuova Zelanda, Canada, Regno Unito, Norvegia, Svezia e Francia. Nel complesso, emerge un quadro – va detto: qualitativo e quasi aneddotico più che quantitativo – che parla di un mondo in cui le donne spesso devono ancora superare ostacoli importanti per accedere a quello che pure per legge è identificato come un diritto.
Una delle barriere principali individuate dalle autrici della revisione – Susan Nancarrow e Frances Doran, della Southern Cross University di Lismore, in Australia – è la carenza di personale sanitario qualificato per l’intervento, chirurgico o farmacologico che sia. Uno degli studi presi in considerazione, per esempio, ha sottolineato che circa un terzo delle donne americane vive in stati caratterizzati da una carenza cronica di operatori. E qui come non ricordare quello che accade anche nel nostro paese, con regioni che hanno un numero altissimo di operatori sanitari obiettori?
Altro capitolo critico è l’accesso all’aborto farmacologico, con una combinazione di due sostanze, mifepristone e misoprostolo. Se, come si legge nell’introduzione della review, nei Paesi in cui questo metodo è facilmente disponibile esso viene ampiamente utilizzato (succede in Francia, Svezia e Svizzera), resta vero che in altri Paesi l’accesso a questa modalità per l’interruzione di gravidanza rimane complicata. In Canada, per esempio, solo il 15% degli aborti nel primo trimestre avviene per via farmacologica e negli Stati Uniti solo il 13% dei servizi che si occupano di aborto offre questa possibilità. E questo nonostante l’associazione mifepristone/misoprostolo sia da tempo inserita nell’elenco dei farmaci essenziali per la salute riproduttiva dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo Nancarrow e Doran, uno dei limiti principali denunciati dagli studi esaminati rispetto a questo tema è la mancanza di formazione adeguata per gli operatori. Ma potrebbe esserci anche una soluzione: la telemedicina. Le autrici, infatti, riferiscono di alcune indagini su questa modalità di accesso all’interruzione farmacologica di gravidanza, che sembrano aver dato esito positivo.
Il meccanismo, sperimentato in particolare in Iowa e Minnesota, negli Stati Uniti, è semplice: la donna si reca in un centro per la salute riproduttiva presente sul territorio (una specie di analogo privato dei nostri consultori), ha un primo colloquio di persona con un’infermiera o un’ostetrica, viene sottoposta ad alcuni esami (un’ecografia ed esami del sangue) e infine ha un secondo colloquio in remoto, via computer, con un medico specialista. Se al termine di questo incontro virtuale manifesta la sua intenzione a procedere con l’interruzione di gravidanza, il medico sblocca, sempre via computer, la serratura di un armadietto in cui sono contenute le due pillole abortive. La donna assume la prima sul momento, sotto gli occhi del medico, e la seconda a casa, 24-48 ore dopo.
Secondo i risultati delle indagini sul metodo, condotte da una delle principali organizzazioni promotrici, tutto questo consentirebbe un approccio più semplice e immediato, riducendo la necessità di lunghi – e onerosi – spostamenti per donne che non vivono nei pressi di un centro che pratica l’aborto e il rischio di dover intervenire oltre il primo trimestre, se la ricerca di un servizio disponibile è andata troppo per le lunghe. Le autrici sottolineano come l’accesso a questa modalità non sia associato a un aumento complessivo del tasso di aborto.
Le barriere, comunque, non finiscono qui: ci sono quelle geografiche, per donne che vivono in aree remote, e quelle logistiche. In uno studio canadese, per esempio, il 35% delle donne del campione non è riuscito ad ottenere un appuntamento dal medico al proprio tentativo. E ancora, ci possono essere problemi di costi o un clima generale sfavorevole alla procedura, con minacce e intimidazioni alle donne che la richiedono e soprattutto agli operatori che la praticano. Insomma, c’è ancora molto da fare perché la possibilità di aborto non resti sulla carta, ma diventi una possibilità concreta nella vita delle donne.
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