L’impatto umano sul paesaggio nell’età del bronzo
Le risorse naturali, come il legno per le costruzioni, il suolo per le coltivazioni e l’acqua per l’irrigazione e il trasporto, hanno avuto grande importanza nell'economia delle prime società agricole stabili. Caratterizzare l’ambiente naturale e il paesaggio dei villaggi preistorici è essenziale per ricostruire la storia dell’uomo.
RICERCANDO ALL’ESTERO – “Credo sia molto importante capire le nostre radici, sapere da dove veniamo. In archeologia, molto spesso ci si concentra sull’uomo, sui suoi artefatti o sculture e ci si dimentica che c’è un paesaggio attorno, un ambiente che può subire modifiche, naturali o indotte dall’uomo. Studiare come erano fatti i villaggi antichi, cosa si coltivava e perché certi insediamenti sono scomparsi è fondamentale per dare un quadro più completo possibile della storia dell’uomo”.
Nome: Marta Dal Corso
Età: 30 anni
Nata a: Mirano (VE)
Vivo a: Kiel (Germania)
Dottorato in: Archeobotanica (Università di Kiel)
Ricerca: Ricostruire la vegetazione del passato grazie a microresti di piante
Istituto: Institute of Pre- and Protohistoric Archaeology
Interessi: fare illustrazioni per bambini, leggere, andare al cinema, cucinare, mangiare
Di Kiel mi piace: la dimensione umana della città, il paesaggio, il fiordo, la bella gente
Di Kiel non mi piace: è molto piccola, non ci sono attrazioni culturali, mancano i bar in piazza
Pensiero: Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilatano il tempo per vivere. (Daniel Pennac)
Cos’è l’archeobotanica e di che cosa si occupa?
Come dice la parola, l’archeobotanica è una disciplina a metà tra la botanica e l’archeologia. Si occupa di studiare le piante del passato per ricostruire la vegetazione e il paesaggio naturale e risalire al tipo di relazione che c’era tra uomo e ambiente. L’idea è cercare di capire se ci sono stati cambiamenti naturali che hanno influito sullo sviluppo culturale dell’uomo, qual è stato l’impatto dell’uomo sul paesaggio, che uso (economico, tecnologico, alimentare) hanno avuto le piante o qual era la composizione della vegetazione in una determinata area. Per esempio, quest’ultimo aspetto può essere utile nei progetti di riforestazione mirati a piantare specie di alberi o di piante più autoctone.
Nella mia ricerca mi sono occupata delle condizioni ambientali durante l’età del bronzo di un’area densamente popolata del nord-est Italia e particolarmente attiva tra il XVII e XII secolo. A quell’epoca, nella pianura Padana c’erano moltissimi insediamenti chiamati terramare che verso la fine dell’età del bronzo sono stati abbandonati per motivi ancora poco chiari agli archeologi. Si parla di collasso o crisi delle terramare. So che può sembrare strano il fatto che faccio ricerca in Germania su un ambiente italiano, ma qui gli studi di questo tipo sono davvero molto sviluppati.
Come si fa a ricostruire il paesaggio di tre secoli fa?
Si parte da resti botanici, cioè da campioni di piante. In natura esistono reperti vegetali che si conservano molto bene nel tempo e si possono trovare ancora oggi nei sedimenti di suolo o nei cosiddetti archivi naturali, ambienti tipicamente umidi come laghi e torbiere che garantiscono una buona protezione dei campioni vegetali.
Tra i resti botanici più conservati c’è il polline delle piante. I granuli di polline, infatti, possiedono una parete esterna chiamata esina fatta da un particolare polimero, la sporopollenina, considerato tra i più resistenti prodotti in natura. Assieme ai pollini, nel suolo si possono trovare vari microfossili, spore fungine o uova di parassiti intestinali, magari legate alla presenza di feci animali e quindi di animali al pascolo, e alghe, importanti indicatori dello stato di eutrofizzazione di un bacino.
Infine, ci sono i fitoliti, ovvero piccoli sassolini di silicio prodotti dalle piante e poi depositati negli organi vegetali. Molti fitoliti portano l’impronta delle strutture in cui si sono formati e rappresentano perciò veri e propri calchi di cellule o tessuti vegetali antichi. Possono essere presenti un po’ in tutta la pianta, tranne nel chicco e nelle parti che mangiamo: essendo granelli simili alla sabbia sarebbero spiacevoli da masticare.
I fitoliti vengono prodotti da piante erbacee monocotiledoni, come le Poacee e le Ciperacee. In particolare, le Poacee sono di grande interesse archeologico perché comprendono la maggior parte dei nostri cereali e, dal neolitico in poi, sono state la principale fonte di sostentamento nell’economia agricola. Alcuni fitoliti sono poi indicatori di pula e paglia, componenti che pensiamo importanti nell’economia antica perché utili nella stabulazione degli animali, come pagliericci per dormire o, assieme all’argilla, per fare gli intonaci delle capanne e rivestire muri fatti di canne.
Come si studiano i resti botanici raccolti?
Dal punto di vista pratico quello che si fa è utilizzare un carotatore, cioè uno strumento di metallo pesantissimo con tubi di un metro che vengono martellati nel terreno. È un’operazione piuttosto faticosa per cui si cerca sempre di convincere qualche amico forzuto ad accompagnarti e, soprattutto, a martellare.
Si carota sempre in più punti e dopo aver estratto il sedimento, la sequenza di suolo viene messa in tubi di plastica, portata in laboratorio e conservata in una cella frigorifera.
ll primo passo, molto importante, è la datazione del sedimento. Poi c’è la campionatura e la preparazione chimico-fisica del sedimento e infine l’analisi al microscopio: si tratta di contare tutti i resti botanici e cercare di caratterizzarli con l’aiuto di atlanti fotografici e chiavi dicotomiche. Per i pollini questi strumenti esistono, per fortuna, e quindi riusciamo a identificare e a indicare la provenienza per ogni granulo: un polline arboreo è indice di copertura boschiva, uno graminaceo di terreni coltivati dall’uomo, e così via.
Per i fitoliti non c’è ancora nessuna chiave identificativa quindi l’analisi si basa principalmente sulla morfologia.
Cosa hai scoperto sul collasso delle terramare?
Il sito in cui abbiamo carotato è un laghetto chiamato Castellaro Lagusello. In quella zona c’era uno dei pochi insediamenti sopravvissuti quasi un secolo in più degli altri alla crisi demografica, chiamato Fondo Paviani.. I miei dati dimostrano che durante il periodo di vita del villaggio, nel paesaggio c’è stato un intenso disboscamento e il bacino locale si è prosciugato. Inaridimento, deforestazione e pressione demografica sarebbero, dunque, tra le possibili cause del collasso delle terramare. A eccezione di Fondo Paviani, che ha continuato a essere abitato per motivi probabilmente culturali: si trova in un’area vicina all’Adige, quindi in posizione strategica, e tra i ritrovamenti ci sono ceramiche micenee a testimoniare contatti culturali ad ampio raggio. Infine, studi archeologici di questa comunità hanno suggerito la presenza di un gruppo ristretto di persone in grado di organizzare la società e far fronte ai limiti ambientali.
Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
Sicuramente continuare a lavorare sui fitoliti, cercando di creare una collezione di riferimento a partire da piante moderne da comparare con i resti antichi. Un altro progetto di cui mi sto occupando riguarda uno scavo archeologico in Ucraina, in un sito del IV millennio a.C. archeologicamente molto interessante. In questa zona, a un certo punto della storia si sviluppa un villaggio dalle dimensioni incredibili, circa 160 ettari e ci interessa capire che tipo di organizzazione sociale ci fosse alla base di una simile comunità tale da costruire villaggi così enormi. Ovviamente vogliamo anche scoprire che ambiente c’era e cosa si coltivava.
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Crediti immagine: Marta Dal Corso