In Italia nel Paleolitico si macinava già l’avena
La scoperta di un team dell'Università di Firenze, che ha messo a punto un nuovo metodo di analisi
SCOPERTE – Che Homo sapiens non fosse solo un cacciatore era cosa nota, ma che macinasse l’avena per nutrirsene è una scoperta avvenuta solo in questi ultimi mesi. A riuscirci un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze e di Siena, della Soprintendenza Archeologia della Toscana e dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, che ha analizzato con una metodologia innovativa una macina proveniente da Grotta Paglicci, in provincia di Foggia, rilevando tracce di avena risalenti a 32 mila anni fa, nel Paleolitico. Ne abbiamo parlato con Marta Mariotti, la botanica che ha coordinato la ricerca, pubblicata su PNAS.
Le novità introdotte da questo studio sono due: la prima riguarda la scoperta che la macinatura dell’avena non è stata in realtà introdotta in Occidente dal Medio Oriente durante il Neolitico, come si pensava, ma che in realtà questa pratica era in uso nella penisola italica ben prima. La seconda è invece una novità metodologica. “Normalmente quando si compiono analisi di questo tipo – ci spiega la Mariotti – si lava l’intera superficie da esaminare, in questo caso la superficie della macina. Il problema è che in questo modo si raccoglie tutto insieme quanto si trova sulla superficie, senza riuscire a separare i resti vegetali, in questo caso l’amido, zona per zona. Ma soprattutto, lavando una superficie, si rende impossibile una seconda analisi, mentre noi volevamo trovare un metodo che ci permettesse di eseguire un esame più approfondito senza rovinare il campione, in modo che se in futuro dovessero essere sviluppate tecniche più raffinate, i ricercatori potrebbero studiare di nuovo la macina.”
Per riuscire in questo intento, però, ci sono voluti più di due anni, durante i quali sono stati compiuti degli esperimenti su macine nuove, che sono state “invecchiate” ad hoc, sotterrandole per 1-2 anni e trattandole come fossero antiche per individuare le zone da campionare.
Dopo due anni di esperimenti riusciti, i ricercatori hanno provato a utilizzare questo nuovo metodo direttamente sulla macina antica e i risultati sono stati molto interessanti. “Abbiamo individuato le zone della macina dove si trovano i granuli, fatto che ci ha permesso di capire dove fosse l’impugnatura. Quest’ultima sembra una cosa secondaria, ma non lo è: a noi interessava ricostruire soprattutto la gestualità dei nostri antenati” racconta la Mariotti. In particolare i ricercatori si sono accorti che l’amido si trovava nelle linee di usura della macina. Inoltre, nelle parti in cui la macina si strofinava con l’altra superficie erano rimasti granuli di dimensioni maggiori, mentre nella punta della macina, che fungeva da pestello, erano rimaste intrappolate tracce più piccole.
Per quanto riguarda l’età dei campioni, la prima datazione è avvenuta sulla base dei manufatti ritrovati nella grotta accanto alla macina, mentre una seconda è stata effettuata mediante il radiocarbonio che ha ristretto l’intervallo individuato.
Molto interessante è anche il luogo di ritrovamento di questa macina. Grotta Paglicci è infatti oggi praticamente interdetta a visitatori e ricercatori a causa delle condizioni precarie di sicurezza in cui si trova. La macina stessa che è stata oggetto di esame in realtà era stata prelevata da lì diversi anni fa, durante alcuni scavi archeologici. Grotta Paglicci è infatti una vera miniera di tesori risalenti al paleolitico: pitture rupestri, graffiti, impronte di mani di 45 mila anni fa. Tesori che purtroppo ad oggi nessuno può ammirare.
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