Rivoluzione dello shale gas? Non in Europa
A Varsavia si è chiusa la Shale World Europe, una conferenza sul gas scisto, quali i risultati?
ATTUALITÀ – Non ci sarà nessuna rivoluzione del gas di scisto in Europa: è la conclusione cui è giunta la conferenza Shale World Europe, tenutasi a Varsavia il 17 e 18 novembre. L’incontro ha richiamato agenzie di consulenza del settore, rappresentanti di compagnie gassifere e geologi istituzionali. Al centro del dibattito ci sono state soprattutto questioni economiche, tecnologiche e legislative; ma si è parlato anche, benché in misura di gran lunga minore, d’impatto ambientale e sociale, e di comunicazione.
“È il terzo anno che vengo a questa conferenza, ma dal 2013 a oggi, i partecipanti si sono dimezzati. Nel 2013 c’erano duecento persone, ora siamo meno di cento”, afferma il direttore di un’impresa di servizi geofisici. In effetti, lo shale gas sembra aver perso gran parte del suo fascino: perfino in Polonia, un paese i cui governi hanno sostenuto a spada tratta l’immagine di una rivoluzione europea dello shale sulla falsariga di quella che ha permesso agli Stati Uniti di ridurre la propria dipendenza energetica dall’estero, oggi preferiscono parlare di GNL (gas naturale liquefatto) piuttosto che di scisti. Singolare è il fatto che, nella campagna che ha preceduto le ultime elezioni parlamentari meno di un mese fa, nessun partito abbia neppure nominato questa risorsa.
Il motivo? Vari. Per cominciare, i costi dell’esplorazione sono molto alti, e con un prezzo del petrolio basso non conviene investire in imprese rischiose. In secondo luogo, le tecnologie usate in America non sono adatte alle diverse condizioni geologiche dell’Europa, e prima che siano adattate occorreranno anni e forti investimenti. Ci sono poi incertezze legislative, dovute ai diversi contesti nazionali e all’assenza di una politica comunitaria sullo shale – politica che è stata osteggiata, per inciso, dai due Paesi membri che stanno maggiormente spingendo sull’acceleratore in quest’industria, cioè Polonia e Regno Unito, consci che a livello europeo lo shale non è per niente ben visto. Infine, l’accettazione pubblica in Europa è bassa: ci sono state proteste praticamente ovunque.
Le ONG ambientaliste, dunque, cantano vittoria. O lo farebbero se fossero presenti al convegno: difficile, quando l’obolo richiesto per la partecipazione è di oltre mille euro. In effetti, la conferenza ha un’aria decisamente elitaria. Non stupisce, quindi, che su alcuni aspetti controversi dell’industria dello shale si sorvoli, o che vengano dati giudizi sommari su aspetti importanti come quello comunicativo. “La gente si oppone allo shale perché non capisce la scienza che c’è dietro. È male informata dai media, è emotiva, non capisce che il fracking [la tecnica usata per cercare lo shale gas, NdR] è innocua, se ben monitorata”. È l’opinione più diffusa tra i geologi presenti, ed è condivisa dai tecnici delle compagnie di perforazione. Un’opinione che suona stonata alle orecchie di un sociologo, ma che in questo ambiente è considerata pienamente giustificata. I possibili problemi ambientali vengono trattati soltanto in una comunicazione in tutta la conferenza; quelli comunicativi e sociali, in una tavola rotonda nell’ultima sessione del secondo e ultimo giorno, quando in sala sono ormai rimaste meno di trenta persone. A sottolineare la marginalità attribuita a questo aspetto.
Ne risulta un dibattito impoverito. I cittadini non approvano? Colpa di Gasland. Le comunità locali protestano? È perché pensano al loro orticello e non al bene del Paese (si cita più volte l’effetto Nimby, la cui pertinenza analitica in ambito sociologico è decaduta da almeno una decina d’anni. Più o meno come se un sociologo avesse da obiettare sulla validità della tettonica a placche). Società del rischio? Mai passata di qui. Cosa bisogna fare, quindi? Risposta della platea: convincere i cittadini che la scienza ha ragione. E se la scienza è controversa? “Sciocchezze. La scienza non è controversa: il fracking è innocuo. Ci possono essere errori umani, ma quelli ci sono in ogni attività industriale”, risponde in coro l’industria tecnoscientifica.
Ma ci sono studi che sostengono che le emissioni di gas a effetto serra connesse al processo di produzione dello shale sono pari se non superiori a quelle del carbone.“Sono studi ‘outlier’, anomalie – è la replica – Se si prendono gi studi ‘seri’, questi dicono che lo shale può essere un’energia ponte tra il carbone e le rinnovabili”. Ma gli studi ‘anomali’ si moltiplicano di anno in anno. E anche l’idea dello shale come energia-ponte tra il duo carbone/petrolio e le rinnovabili è contestata da più lati, nel timore che investimenti sullo shale possano influire negativamente su quelli dedicati alle rinnovabili. Oltre al fatto che il gas resta un’energia fossile, e svilupparla va contro il processo di decarbonizzazione sostenuto dall’UE.
A fine conferenza, insomma, si ha la sconfortante impressione che se anche climatologi e sociologi continuassero a produrre teorie e analisi sempre più minuziose per i prossimi cent’anni, rispettivamente sugli effetti delle energie fossili sul clima, e sulle ragioni delle proteste ambientali, i geo-scienziati e gli addetti dell’industria degli idrocarburi continuerebbero a fare finta di niente. Con buona pace dell’IPCC, dell’Unione Europea e della COP 21.
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