Trivelle: cosa dice la scienza?
Un parere scientifico può aiutare a prendere decisioni più consapevoli alle urne: in vista del referendum del 17 aprile, abbiamo chiesto l'opinione di alcuni esperti
SPECIALE MARZO – Il referendum del 17 aprile chiama gli italiani a decidere sul destino di alcuni pozzi estrattivi che si trovano nei nostri mari. In particolare, il quesito riguarda il rinnovo delle concessioni per portare avanti attività di estrazione di gas e petrolio nelle piattaforme che si trovano entro le 12 miglia dalla costa italiana. Votare sì significa fermare questo rinnovo: allo scadere dei contratti, non sarà più possibile rinnovare le concessioni, anche se il giacimento contiene ancora gas o petrolio. Votare no significa lasciare immutato l’articolo 6 comma 17 del codice dell’ambiente, che stabilisce che nelle piattaforme già esistenti, entro le 12 miglia dalla costa, le attività di estrazione possono andare avanti fino all’esaurimento del giacimento.
La domanda referendaria potrebbe sollevare alcuni dubbi circa la sicurezza di pozzi di estrazione così vicini alla costa. Le attività estrattive possono essere responsabili di terremoti? Oppure possono essere fonte di un inquinamento così intenso da provocare gravi danni all’ambiente marino e indirettamente agli esseri umani?
Il rischio sismico
Nella letteratura internazionale sono stati descritti almeno 70 casi di eventi in cui l’attività sismica è stata associata con la produzione di idrocarburi, sebbene i dati non siano sempre così certi. È quanto riportato dal rapporto ISPRA, scritto nel 2014 da una commissione di esperti, con l’intento di indagare la sismicità indotta in Italia. Il rapporto verifica la possibilità che vi sia una qualche connessione tra l’attività estrattiva sul territorio nazionale e il rischio sismico.
Il gruppo di lavoro, grazie alla rete di stazioni per la rivelazione delle attività telluriche distribuite localmente, ha potuto monitorare attività sismiche anche a bassa magnitudo. Tra le piattaforme estrattive solo un caso ha destato sospetti. “La re-iniezione di acque di strato dei giacimenti di idrocarburi nel pozzo Costa Molina 2 in Val d’Agri, è l’unico caso in cui è stata dimostrata la presenza di fenomeni di sismologia indotta, tra l’altro a bassa intensità, pari a magnitudo 2”, ha spiegato Marco Mucciarelli, Direttore del Centro Ricerche Sismologiche dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale. “In totale in Italia sono stati registrati 17 eventi di sismicità indotta, non necessariamente legati all’estrazione degli idrocarburi”, ha continuato Mucciarelli. “Una quantità irrisoria se confrontata con gli eventi naturali”.
Mucciarelli ha proseguito dicendo che perfino la zona Adriatica, la più ricca di pozzi petroliferi, ha registrato solo eventi sismici naturali, addirittura antecedenti all’installazione di piattaforme per l’estrazione degli idrocarburi, come il terremoto del 1916 a Rimini. “I terremoti indotti più preoccupanti sono quelli che avvengono in territori non sismici, come per esempio l’Oklahoma o l’Olanda dove non esistono edifici antisismici”.
Ribaltando il problema, le perforazioni hanno avuto anche una qualche utilità per aumentare la conoscenza del nostro territorio? “Le prospezioni profonde del suolo, usate per la ricerca degli idrocarburi, spesso hanno dato importanti informazioni sulla geologia del suolo”, ha spiegato Mucciarelli. “In alcuni casi, se non avessimo fatto delle sezioni sismiche non avremmo mai saputo che sotto terra c’era una faglia attiva”. In uno studio recentemente pubblicato su Natural Hazards and Earth System Science, Mucciarelli e il suo gruppo di ricerca hanno per esempio messo in relazione i pozzi improduttivi con i punti caratterizzati da faglie attive. Infatti i terremoti provocati in corrispondenza di quelle faglie potrebbero essere i responsabili della dispersione di metano, fenomeno che rende poi i pozzi non produttivi. Questo ha importanti ricadute nell’individuare faglie in grado di provocare terremoti e nell’affermare che, laddove vi è un pozzo attivo, quasi certamente non vi è pericolo di terremoti innescati dall’attività estrattiva.
Rischio ambientale
Ma qual è l’impatto delle attività estrattive sull’ambiente e la biodiversità marina? Canyon sottomarini, emissioni di fluidi, rilievi nei fondali, formano habitat e condizioni ambientali particolari e generano condizioni favorevoli allo sviluppo e al mantenimento di una grande biodiversità. È importante dunque domandarsi quanto l’alterazione di tali luoghi, in seguito all’attività antropica, possa influire sull’equilibrio ecologico e ambientale.
Ecco il tema che sta al centro dell’ultimo rapporto di Greenpeace “Trivelle fuorilegge”, che raccoglie e rilegge criticamente i dati che monitorano l’inquinamento generato dall’attività estrattiva. Il rapporto evidenzia come non tutti i dati delle ispezioni ambientali siano disponibili, cosa che limita la trasparenza dei controlli. Inoltre il documento sottolinea che la maggior parte delle piattaforme analizzate ha almeno un valore che eccede i limiti stabiliti per legge, sebbene tale dato possa variare da un anno all’altro.
L’impatto ambientale misurato dalla Marine Strategy Framework Directive, la direttiva varata dalla Comunità Europea e ben spiegata nel post “L’Adriatico tra trivelle e sviluppo sostenibile”, ancora una volta dà alcuni giudizi negativi sulla presenza dell’attività estrattiva nei nostri fondali.
Se le critiche sollevate dai movimenti ambientalisti generano almeno il desiderio di una maggiore trasparenza, resta comunque il fatto che il provvedimento proposto dal referendum si limiterebbe a un numero piuttosto esiguo di piattaforme. Oggi in Italia abbiamo 135 piattaforme marine da cui preleviamo gas e petrolio. I pozzi marini collocati in prossimità della costa, cioè entro il limite delle 12 miglia, sono solo 43. La risposta referendaria avrà potere di agire solo su questi. Tra l’altro solo quando scadranno le concessioni. Tutte le restanti attività estrattive in mare (e sulla terraferma) continueranno, a prescindere dal risultato del referendum.
E lo dimostra il fatto che il governo continua a raccogliere istanze per il conferimento di concessioni per l’estrazione di idrocarburi. Tuttavia lo stesso documento che elenca le istanze ricevute sottolinea come non siano state accettate tutte le richieste. Ben 27 istanze che si riferivano ad aree non conformi alla legge sono state respinte. Quattro sono le domande accolte, ancora in fase di verifica. Inoltre “eventuali impatti ambientali notevoli si possono avere solamente in caso di gravi incidenti in mare, che provochino lo sversamento di petrolio”, ha sottolineato Ezio Mesini, Presidente e docente della Scuola di Ingegneria e Architettura dell’Università di Bologna. “La maggior parte dei pozzi presenti nei nostri mari è dedicata all’estrazione di gas metano”.
Anche la struttura dei nostri pozzi petroliferi è molto diversa rispetto a quella di piattaforme che sono state al centro di gravi incidenti. “L’incidente della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico ha coinvolto un pozzo di estrazione profondo, pari a 1500 m”, ha spiegato Mesini. “Tutte le piattaforme dell’Adriatico si trovano su fondali che vanno da poche decine di metri a poco più di 100 m”. In Adriatico abbiamo avuto solo un grave incidente negli anni Sessanta, con fuoriuscita di metano dalla piattaforma Paguro al largo di Ravenna, con conseguente incendio. “Ma essendo una fuga di gas, anche i danni ambientali non sono paragonabili a quelli di Deepwater Horizon”, ha commentato Mesini.
Altri problemi ambientali potrebbero poi essere indotti proprio in fase di sigillatura dei pozzi (chiusura mineraria), in caso di vittoria del “sì” al referendum del 17 aprile. Infatti, spiega Mesini, il metano residuo, che continuerebbe a essere presente in conseguenza del protrarsi della “vita utile del giacimento”, potrebbe rendere meno efficace l’iniezione di malta di cemento all’interno dei pozzi, una tecnica usata per isolare idraulicamente i livelli produttivi durante le operazioni di chiusura mineraria. Le operazioni di chiusura mineraria non solo sarebbero più complesse, ma potrebbero anche comportare maggiori rischi dovuti a una pressione superiore del gas non completamente esaurito. Per scongiurare i rischi che potrebbero essere legati a tutte le attività estrattive presenti nei nostri mari, anche non oltre le 12 miglia di distanza dalla costa, molto può fare proprio la ricerca.
Secondo gli scienziati che abbiamo consultato, non si evidenziano particolari criticità o allarmismi legati alle attività estrattive. Anzi, a partire dai pozzi petroliferi, la ricerca ha trovato anche le risorse per procedere con indagini di sicurezza e verifiche di controllo. Come evidenzia il Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi e delle Georisorse, firmato dal Ministero dello Sviluppo Economico, parte delle risorse derivanti dal versamento delle royalties relative alla produzione di idrocarburi in impianti offshore è destinato ad assicurare il pieno svolgimento delle azioni di monitoraggio e contrasto dell’inquinamento marino e delle attività di vigilanza e controllo della sicurezza, anche ambientale, degli impianti di ricerca e coltivazione in mare.
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