Quanto deve valere la tassa sul carbonio
Un nuovo modello economico, non statistico, stima il costo per la collettività quando vengono superati i “punti di non ritorno” (tipping points) per il clima terrestre.
RICERCA – Da venticinque anni alcuni economisti provano a stimare la convenienza o meno di ridurre le emissioni di gas serra, a grandi linee e fra molte polemiche. Quelli della Hoover Institution, all’Università Stanford, sono noti per essere favorevoli alla politica “meno Stato, più libero mercato” e per opporsi alle misure previste dagli accordi internazionali per frenare il riscaldamento globale, finché il rapporto costi/benefici non sarà certamente positivo. Data l’incertezza delle proiezioni climatiche ed economiche a lungo termine e i decenni necessari per sostituire i combustibili fossili con fonti di energia pulita, ritengono urgente non fare nulla.
Su Nature Climate Change però, un articolo di Yonyang Cai della Hoover Institution, insieme ai colleghi Tim Lenton dell’Università di Exeter e Thomas Lontzek dell’Università di Zurigo, sostiene l’esatto contrario.
I tre economisti propongono un modello dinamico-stocastico (1) che si basa su nove variabili, tutte molto capricciose e incerte, a cominciare dalla “evoluzione della crescita economica”. Ne risulta un “costo sociale del carbonio” in termini di diminuzione del prodotto mondiale lordo. Il costo equivale ai danni climatici che la collettività subirà da qui al 2200 e alla carbon tax che ogni Stato dovrebbe prelevare oggi, non necessariamente sotto forma di imposta, per rimediare in futuro.
Per illustrare il modello, anche questa volta gli autori scelgono cinque esempi di cambiamenti che sarebbero irreversibili (tipping points) anche se, una volta innescati, le emissioni di CO2 fossero subito azzerate. Sono già simulati nelle proiezioni dei modelli climatici perché incidono sul ciclo del carbonio, sulla temperatura globale e sul livello del mare, tre aspetti collegati fisicamente e dinamicamente:
- la fusione della calotta glaciale groenlandese a partire dal 2060;
- il blocco della circolazione termoalina nell’Atlantico meridionale (Corrente del Golfo) a partire dal 2080;
- le fasi calde dell’ENSO (El Niño) a scadenza sempre più ravvicinate a partire dal 2140;
- la scomparsa della foresta amazzonica a partire dal 2180;
- il collasso della Penisola occidentale antartica a partire dal 2200.
Gli eventi non hanno né la stessa probabilità (è ignota o bassa quella di una maggior frequenza o potenza del Niño) né lo stesso effetto (il blocco della Corrente del Golfo rallenta inizialmente il riscaldamento globale e le sue conseguenze). Gli esiti del modello non sono affatto lineari, dipendono dallo stato iniziale del sistema clima-economia, e la definizione di questo stato è la parte matematicamente più innovativa rispetto ai modelli deterministici di William Nordhaus e di Nicholas Stern. Usa gli stessi indici e parametri per la produttività, gli investimenti e il costo del capitale, ma aggira il controverso tasso di sconto da applicare ai costi e benefici delle decisioni odierne per le generazioni future, detto anche “problema dell’equità intergenerazionale”.
Nella media di un migliaio di simulazioni, all’inizio i costi aumentano in funzione del rischio di perdita economica che un punto di non ritorno comporta via via, poi prevale la probabilità crescente di quelli successivi. Quando si tiene conto delle loro interazioni fino al 2200, la tassa sul carbonio da applicare oggi passa da 15 dollari a 116 dollari per ogni tonnellata di CO2 emessa. E a oltre 1200 dollari se viene applicata una volta superato il primo tipping point.
Dopo aver insistito sui margini di incertezza, i tre economisti arrivano alla stessa conclusione dei climatologi:
La politica ottimale implica un sforzo immediato e massiccio per controllare le emissioni di CO2, e fermarle del tutto entro il 2050 per riuscire a stabilizzare la temperatura media globale a circa 1,5 °C sopra i livelli pre-industriali.
Secondo l’Organizzazione mondiale della meteorologia, siamo già a +1 °C rispetto all’inizio del Novecento.
(1) In un articolo più dettagliato, riassunto su PNAS l’anno scorso, Yonyang Cai e colleghi avevano mostrato che era più realistico rispetto a un modello con le stesse variabili, ma deterministico. Su Nature Climate Change, avevano pubblicato una stima più ottimista: per evitare i punti di non ritorno, scrivevano, dal 2005 la tassa doveva essere di soli 36,70 dollari per tonnellata di CO2, due volte il valore di un credito carbonio di allora. Nella UE a fine 2015 era di 8,29 dollari.
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