La climate fiction di Bruno Arpaia
Città allagate, tropicalizzazione dell'Europa, desertificazione e migranti climatici: "Qualcosa, là fuori" racconta il mondo come potrebbe essere tra meno di un secolo
STRANIMONDI – Livio è un neuroscienziato amareggiato da una vita che non ha potuto scegliere fino in fondo. Una vita cui, suo malgrado, eventi globali lo hanno costretto. L’eccitazione intellettuale di lavorare a Stanford, in una delle migliori università del mondo; le gioie coniugali con Leila, la moglie di origine siriana e ricercatrice in fisica; l’amore per la città natale, Napoli, che ribolle di vita nei ricordi della sua vita da studente ventenne: tutto questo viene cancellato in battito di ciglia, nel tempo di una scossa elettrica tra i neuroni, verrebbe da scrivere, e in un momento soltanto tutto il suo mondo non esiste, e non esisterà, più. Rimane solamente un lumicino di speranza sorda che non sarà facile capire se potrà portare a un futuro migliore.
Il nuovo romanzo di Bruno Arpaia, scrittore napoletano che da sempre si è mostrato attento alle tematiche scientifiche, è il secondo a essere direttamente ispirato alle tematiche di attualità. Se il primo L’energia del vuoto, era un thriller che vedeva coinvolti un fisico del CERN e un funzionario ONU in fuga, questo ha tutte le caratteristiche della storia on the road, quella che una colonna di uomini, donne e bambini percorrono a piedi fino alla Scandinavia per fuggire da un’Europa meridionale devastata dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Benvenuti a una nuova frontiera della narrativa di genere (?): la “climate fiction“.
Siamo in un futuro non troppo lontano, ci racconta Arpaia, in cui gli scenari previsti dall’IPCC e dalla Europea Environmental Agency per il 2100 si stanno concretizzando. Il mondo non ha saputo reagire (non in tempo, non dappertutto) alle numerose avvisaglie delle trasformazioni del clima innescate dall’uomo e ora ne sta pagando le conseguenze: città sommerse, temperature medie più alte che rendono quasi invivibile la fascia temperata – non parliamo di quella tropicale – emigrazioni ancora più massicce di quelle raccontate nelle cronache di questi ultimi anni. Livio, con la moglie Leila, ha creduto per alcuni anni che la situazione fosse sì grave, ma non irreversibile, ché alla fine avrebbe prevalso il buon senso dell’uomo sulla spinta predatoria del “meglio loro che noi”. Una riflessione amara, ma non frontale, sulle responsabilità della politica, forse ispirata ai fallimenti della recente conferenza sul clima di Parigi, in cui sembra che i capi di stato non riescano a fare altro che prendere tempo.
Il romanzo di Bruno Arpaia non è da pensarsi necessariamente cupo, sebbene le tinte rimangano comunque quelle di un pessimismo a tinte scure, inevitabile, ineluttabile. A meno che, interpretando questo romanzo come un monito all’uomo, non si agisca ora per mitigare, prevenire il peggio e adattarsi come meglio potremo a un pianeta Terra con la febbre perenne. Sembra echeggiare, con i toni della fiction di razza, le conclusioni sia dei rapporti dell’IPCC, sia una nutrita compagnia di saggisti (tutti citati in appendice) che vedono poca serenità nel futuro dell’umanità. Ma Arpaia, anticipavamo, non si lascia trascinare fino in fondo al gorgo: lascia uno spiraglio di speranza che si concretizza nei lati più umani di alcuni personaggi. Marta e la figlia Sara, il piccolo Miguel, alcune guardie della scorta armata: loro decidono, alla fine, di vivere. Nonostante tutto.
La narrazione di Arpaia, pur rimanendo all’interno di canoni romanzeschi, con una costruzione che rende Qualcosa, là fuori (titolo che omaggia volutamente un saggio di Enrico Bellone di qualche anno fa) già pronto per un adattamento per lo schermo, lascia qualche volta spazio a spiegazioni, precisazioni su meccanismi del clima, su conseguenze dell’innalzamento delle temperature medie e spiegazione scientifiche. Tutti ricavati da una bibliografia consistente che si ritrova in fondo al volume. Ma Arpaia si allarga, immaginando come si potrebbero trasformare Napoli e l’Italia, l’Europa e gli Stati Uniti: un’accentuazione di sensibilità religiose, uno scontro aperto tra le grandi fedi monoteistiche e un inasprimento delle disparità. Tutti elementi che non sono fantascientifici, ma l’estremizzazione di tratti che si possono già vedere oggi nel mondo.
Le atmosfere, come è stato scritto, sembrano echeggiare Cormac McCarthy e il suo La strada. Arpaia cita direttamente Solar di Ian McEwan, altro romanzo basato su tematiche scientifiche. Con tutti i distinguo del caso, a noi la storia di Livio e il suo viaggio della speranza ha ricordato quello dei personaggi di Furore di John Steinbeck. All’inizio del Novcento erano i contadini delle pianure del Midwest a dover abbandonare le loro case perché le terre si erano inaridite per via di una serie eccezionale di tempeste di sabbia. Qui, nel prossimo futuro di Arpaia, sono i cambiamenti climatici a spingere famiglie rotte, uomini e donne feriti a mettersi in marcia. Simili, ci sembra, sono la disperazione, le preoccupazioni, le paure di coloro che si mettono in marcia. Ma, pioggia o sole, caldo o freddo che sia, l’umanità, sembra ricordarci Arpaia, non è mai democraticamente e ugualmente fortunata di fronte al destino. Non per questo, la vita non merita di essere vissuta appieno.
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