Fertility Day: perché è una grande occasione mancata
La campagna "a cartoline" del Ministero della Salute torna online, ma i problemi restano.
GRAVIDANZA E DINTORNI – E dunque la campagna del Ministero della Salute per lanciare il #FertilityDay – appena tornata online – è stato un epic fail di dimensioni mai viste. Pochi inviti in cartolina – a “darsi una mossa”, a “preparare culle per il futuro”, a considerare la fertilità un “bene comune” e deperibile – ed è scoppiato un putiferio. Perché va bene che uno slogan deve essere sintesi, però qui gli slogan sono passati come un rullo compressore sopra un tema di una complessità incredibile, mischiando come se niente fosse piani profondamente diversi (la salute, individuale e pubblica, le politiche sociali…). In più sono passati sopra vite e sofferenze di uomini e donne che hanno consegnato alla rete la loro rabbia per parole che hanno trovato terribilmente offensive.
Perché c’è tanta gente che una mossa se la darebbe pure (sì, omosessuali compresi), ma non può farlo: perché non avere figli a volte non è per nulla una scelta, e perché anche quando lo è non c’è in ballo solo la voglia o meno di diventare genitori, ma anche la possibilità concreta di farlo, tra lavoro che non c’è e servizi men che meno. E invece no, se non facciamo figli è perché siamo o dei pigri tiratardi, magari un po’ ignoranti, e per di più irresponsabili nei confronti della Patria. Per non parlare della bella cartolina sulla Costituzione che tutela la procreazione “cosciente e responsabile”: il pensiero non può non correre a quella tutela sistematicamente violata ogni volta che una donna ha difficoltà d’accesso a un servizio d’interruzione della gravidanza.
“È stata una grande occasione mancata, perché i problemi esistono e credo che in generale lanciare una campagna informativa sui temi della denatalità e della salute riproduttiva sia una buona cosa” commenta Luisella Battaglia, docente di filosofia morale e bioetica all’Università di Genova e membro del Consiglio nazionale di bioetica. “Questa campagna, però, ha messo subito in crisi l’intento, forse anche per un’assonanza tra Fertility Day e Family Day che credo possa aver disturbato molti”.
La denatalità, dunque. Che esista è un dato di fatto: in Italia nascono sempre meno bambini – negli ultimi 5 anni sono stati 64.000 in meno rispetto ai cinque precedenti – e nel 2015 la media è stata di 1,35 figli per donna, mentre ne occorrerebbero circa 2 per garantire il ricambio generazionale. “Il problema è che se non c’è ricambio la società implode: se facciamo pochi figli la popolazione tende a invecchiare in modo insostenibile per la possibilità di creare ricchezza e benessere” commenta Alessandro Rosina, docente di demografia all’Università Cattolica di Milano.
Certo, si potrebbe inserire nel computo la variabile immigrazione, con buona pace di alcuni nostri politici, ma non complichiamo ulteriormente le cose. Il punto è capire se siano i singoli cittadini fertili a doversi fare carico di questo problema, perché in questo caso il richiamo a quel fare figli per la patria di mussoliniana memoria sarebbe piuttosto forte e francamente insopportabile. “Io non direi che la fertilità è un bene comune: è un aspetto privato, con assoluta libertà di scelta” afferma Rosina. “Però le nuove generazioni sì, sono un bene comune. Quindi bisognerebbe agire non sul senso del dovere a fare figli per il bene collettivo del paese, ma sulla possibilità di realizzare con successo scelte desiderate. E questo significa far sì che chi desidera un figlio possa trovare un contesto che lo incoraggia e lo sostiene in tale scelta”.
Sappiamo tutti che non è propriamente così. “In Italia l’avere figli è considerato un costo privato” sottolinea Rosina. “Non a caso non siamo solo uno dei paesi in cui si fanno meno figli – perché i giovani entrano tardi nel mondo del lavoro e quando lo fanno non sempre ricevono adeguata remunerazione, perché abbiamo grossi problemi di conciliazione tra lavoro e famiglia e per la carenza di servizi adeguati per l’infanzia – ma anche uno di quelli dove è più alto il rischio di povertà di chi li fa”. Risultato: l’età media al parto delle donne italiane è 31,5. Molte hanno il primo figlio dopo i 35 anni, o addirittura dopo i 40 e il secondo, magari anche desiderato, diventa un miraggio. “In questo senso, fertilità e natalità sembrano più temi da ministero dell’economia o delle pari opportunità, che da ministero della salute” commenta Maurizio Mori, docente di bioetica all’Università di Torino.
In realtà il tema della salute c’è eccome. Però, anche in questo caso, l’occasione è stata mancata clamorosamente. Perché, per esempio, insinuare che non facciamo figli solo perché ignoriamo il fatto che più tardi li facciamo, più difficoltà potremmo avere è davvero indegno. Come se ogni donna che abbia superato i 30 anni non si sia sentita ripetere un’infinità di volte la triste battuta sull’orologio biologico che ticchetta… Le questioni serie sul piatto sono tante: l’educazione alla salute riproduttiva e sessuale di bambini e adolescenti, per esempio, perché è vero che alcuni stili di vita di oggi – il fumo, l’abuso di alcol, il sesso senza adeguate protezione, che aumenta il rischio di malattie sessualmente trasmesse – possono compromettere la fertilità di domani.
Oppure l’informazione alle donne sui rischi di una maternità “tardiva”: con l’età aumentano i rischi di aborto spontaneo (il 20% a 35 anni, il 40% a 40), di anomalie cromosomiche del feto come la sindrome di Down (una possibilità su 800 se la mamma ha 30 anni, una su 100 se ne ha 40), di parto prematuro, di riduzione della crescita fetale. Alcuni studi suggeriscono anche un aumento del rischio di morte in utero. E ancora, per la mamma aumentano i rischi di complicazioni della gravidanza come diabete gestazionale, emorragia post partum, preeclampsia. Un po’ perché un organismo non più giovanissimo potrebbe non essere in grado di adattarsi in modo ottimale ai pesanti cambiamenti fisiologici portati dalla gravidanza, un po’ perché con l’età cresce la possibilità di soffrire di qualche condizione cronica, come diabete e ipertensione, che a sua volta può comportare complicazioni. Anche la mortalità materna aumenta con l’età: i numeri assoluti per fortuna rimangono piccoli, ma l’aumento c’è.
Certo non è facilissimo fare buona comunicazione su questi temi: c’è il rischio di sfociare nel paternalismo, di dare l’impressione di voler dire alle donne cosa devono fare, e quando devono farlo, e non deve essere questo né l’intento né il risultato. Però, ecco, una campagna ministeriale proprio di questo dovrebbe occuparsi, no? Di comunicare in modo efficace, di trovare il modo giusto per trasmettere informazioni importanti. Perché essere bene informate aiuta a fare scelte più consapevoli, che si tratti di preservare la propria fertilità fin da giovani (senza dover pensare per forza a scelte tecnologiche, come il congelamento degli ovociti), di non aspettare più di tanto, se le condizioni ci sono e comunque un figlio prima o poi è in programma, o di cercare l’assistenza migliore possibile se questo figlio è arrivato quando non si è più giovanissime. In ogni caso, niente a che vedere con il disastro delle cartoline.
Certo, di questi temi si parlerà nelle tavole rotonde in programma in varie città il giorno della fertilità, il 22 settembre, ma anche qui viene il dubbio che sia la formula giusta. “Io non vorrei che questa iniziativa fosse solo una nuova occasione per rinviare ancora a tempo indeterminato il vero grande nodo irrisolto che è costituito dall’educazione sessuale e sentimentale/affettiva nelle scuole” commenta Battaglia. Da lì bisognerebbe partire e invece si continua a evitare l’argomento come la peste. Anche nel campo della salute riproduttiva, educazione e comunicazione sono le parole chiave fondamentali del discorso, ed entrambe hanno molto più a che fare con il clima culturale generale che con qualche tavola rotonda o videogioco.
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