Fertility Day, cosa prevede davvero il “Piano Nazionale per la Fertilità”?
L'impopolare campagna con le cartoline è scomparsa e del sito resta solo il logo. Ma il piano del Ministero della Salute prevede altre iniziative: abbiamo letto il documento
CRONACA- La campagna del Ministero della Salute per il Fertility Day l’abbiamo vista tutti. Cartoline e slogan dal tono paternalistico e accusatorio, un esempio di come non si dovrebbe comunicare un tema delicato e personale come la salute, in questo caso la salute riproduttiva. Per di più in un Paese in cui mancano politiche che siano davvero a tutela di maternità e paternità, che ha accolto con rabbia e incredulità l’invito quasi indiscriminato a fare figli prima che sia “troppo tardi”. Dopo la reazione dell’opinione pubblica, i contenuti della campagna sono scomparsi e del sito restava solo il logo. Oggi è di nuovo online.
Forse siamo di fronte alla campagna di informazione ministeriale più breve della storia e ci si chiede come sia possibile che un progetto di comunicazione simile, presumibilmente passato davanti a molti occhi compresi quelli del Ministero della salute, sia riuscito a vedere la luce.
La bufera è scoppiata ora ma di Fertility Day si parla da marzo, quando il ministro della salute Beatrice Lorenzin ha presentato alcune delle proposte del Ministero con al centro il tema della salute femminile. La giornata nazionale dedicata al tema della fertilità era stata introdotta come proposta di incontro tra famiglie, medici, farmacisti, insegnanti e società scientifiche che si occupano di salute riproduttiva: avrebbe dovuto avere soprattutto sfondo scientifico e promuovere l’informazione riguardo alla denatalità, alla salute sessuale femminile e maschile e su come preservarle. Le “cartoline” ministeriali avrebbero dovuto essere questo, un’occasione per parlare agli italiani con un tone of voice adeguato, rispettoso ma scientificamente rigoroso. Non solo nelle “tabelle e dati che spiegano e informano” presenti sul retro, che nessuno ha fatto in tempo a vedere perché le immagini e il sito sono scomparsi, ma anche negli slogan. Difficile? Certo, ma è esattamente quello che un ministero della salute -o chi questo sceglie per parlare al posto suo- dovrebbe saper fare.
“Se si facesse una seria prevenzione in una generazione, potremmo abbattere di oltre il 50% l’infertilità maschile”, diceva Andrea Lenzi della Società italiana di Endocrinologia (SIE), tra i relatori che nel maggio 2015 hanno presentato il Piano nazionale per la fertilità. “Le tecniche di fecondazione assistita hanno rappresentato uno dei più grandi successi della medicina degli ultimi decenni, consentendo di ottenere una gravidanza a coppie che fino a pochi anni fa sarebbero state considerate irreversibilmente sterili. Purtroppo però, in alcuni casi, queste tecniche hanno portato alcune coppie ed alcuni medici a trascurare l’aspetto diagnostico e il tentativo di ottenere una fertilità naturale, e sono state applicate prima di aver cercato di capire e di trattare le cause che avevano portato all’infertilità”. Anche se nella campagna #fertilityday latitano, la prevenzione e informazione fatte bene (magari a partire dall’età scolare) e un accesso rigoroso alla fecondazione assistita sembravano essere parte integrante di questo piano nazionale.
In Italia, questo è sicuro, la denatalità è al centro del mirino: nel 2015 le nascite sono diminuite di 15.000 unità, arrivando a un totale di 488.000. 1,35 figli per donna e il parto avviene, in media, a 31,5 anni. Questi i dati dell’ISTAT, che ha stabilito un nuovo minimo storico nei nuovi nati dall’Unità d’Italia. I nostri tassi di occupazione femminile sono inferiori a quelli medi dell’Unione Europea per qualsiasi classe di età, ma siamo anche il paese in cui circa tre donne su dieci lasciano il proprio impiego alla nascita di un figlio -perché la maternità comporta un rischio concreto di uscire dal mercato del lavoro- e tre studentesse universitarie su dieci non si sono mai sottoposte a un controllo ginecologico.
Sempre dai dati ISTAT, risultano in continuo aumento i nati con almeno un genitore straniero, “che hanno raggiunto le 105 mila unità nel 2013, arrivando così a rappresentare circa un quinto dei nati della popolazione residente”.
Apparentemente, c’è tutta una serie di questioni sanitarie e sociali da gestire prima di parlare di “datti una mossa! Non aspettare la cicogna” o di sfruttare (avanguardia pura!) l’immagine di una buccia di banana per insinuare lo spettro dell’impotenza nella mente di un giovane uomo, associandola al rischio di infertilità. Al lancio di controllati.it, il portale della Società Italiana di Urologia dedicato al mese della prevenzione urologica nell’uomo, è emerso che solo il 10-20% degli uomini si sottopone a una visita di prevenzione mentre nove maschi su 10 effettuano una visita solo in caso di gravi patologie. Eppure a incombere ci sono malattie importanti come i tumori, che necessitano di attenzione e prevenzione tanto quanto quelle femminili. Con un quadro del genere, che denota l’assenza di una cultura della prevenzione nell’uomo, non serve un guru della comunicazione per capire che una banana floscia non porterà file di italiani a farsi visitare. Anzi, è probabile che il Ministero della Salute abbia ottenuto l’esatto contrario.
Cosa manca del tutto? Le condizioni per permettere davvero una genitorialità serena: in primis, buone politiche del lavoro e di tutela dei lavoratori da rispettare sul serio. Sul fronte delle professionalità coinvolte (farmacisti, medici…) la comunità sembra sostenere piuttosto unanimemente l’iniziativa ministeriale. Anche se alcuni, come Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio degli assistenti sociali, ammettono che a fronte del fine apprezzabile il messaggio di questa campagna è risultato “colpevolizzante, veicolato con strumenti sbagliati e del tutto svincolato dai problemi concreti che quotidianamente passano sulla pelle delle donne”.
Detto questo, il vero e proprio documento del piano del Ministero non consiste in una manciata di cartoline+slogan, ma è un faldone di 137 pagine che parla in modo molto completo di prevenzione, formazione del personale sanitario, situazione demografica, anatomia dell’apparato riproduttore, cambiamenti culturali, cancro, educazione sessuale e molto altro. A cui abbiamo dato un’occhiata per capire se dietro a un errore comunicativo fatto di accostamenti infelici e giudizi non richiesti, ci sia un piano serio. Apparentemente c’è: il documento merita una lettura specialmente per le parti che -con generosa mole di dati- quantificano e contestualizzano la situazione demografica italiana, ma la grossa differenza (di nuovo, nel tone of voice) si sente proprio nello sbilanciamento tra le sezioni strettamente mediche e bibliografate e quelle in cui si avanzano ipotesi e si lascia spazio a commenti. Ma partiamo dai cinque obiettivi
La scelta di parole è quantomeno singolare. “Prestigio della Maternità”? L’idea di capovolgere la mentalità corrente continua a essere degna di nota, perché la procreazione smette di essere un aspetto della vita del singolo e della coppia ma diventa questione statale: la fertilità è un “bisogno essenziale della coppia”. Stiamo ancora parlando di salute, quindi è un modo (brutto) per dire che la salute sessuale è un diritto di tutti ed è bene occuparsene, o parliamo d’altro?
Dopo un cappello introduttivo sull’effetto della denatalità sul welfare, si parla di come la salute riproduttiva sia importante fin dalla giovane età -“gli adolescenti e le adolescenti vanno seguiti dal pediatra e, insieme alla famiglia, educati a divenire autonomi e ad avere maggiore responsabilità per la propria salute ed in particolare per la propria sessualità”- e di come dopo i 35 anni il concepimento diventi via via più difficile per una donna. Tuttavia “il messaggio da divulgare non deve generare ansia per l’orologio biologico che corre”, recita il documento (qualcosa nella campagna è andato storto) e l’intento, si legge tra le righe, è attingere a piene mani al modello di Paesi come l’Australia, che hanno affrontato il problema della denatalità con un linguaggio diretto, facendo leva sull’emozione.
Tra un’ampia trattazione della situazione demografica italiana, una presa di coscienza dei problemi della donna per inserirsi sul mercato del lavoro/rientrare dopo la gravidanza e un’accurata sezione di fisiologia e anatomia riproduttiva (dov’era tutto questo nelle cartoline?) il documento parla diffusamente di quegli aspetti di cui effettivamente sentiamo il bisogno, quelli che non abbiamo visto sul sito del Fertility Day. Le carenze che andrebbero colmate sono tutte chiaramente esplicitate: oltre alla necessità di politiche del lavoro genitori-friendly, incentivi alla natalità su modello dei paesi Nord-europei, si cita espressamente la necessità di fare educazione sessuale a partire dalla giovane età, seguendo le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in un paradigma definito “olistico” che non preveda la sola trattazione dei temi negativi come si fa ora (gravidanze indesiderate, patologie sessualmente trasmissibili…) ma una graduale informazione mirata in base all’età. “Questo punto di vista negativo suscita spesso confusione in bambine/i e ragazze/i e non risponde al loro bisogno di essere informati e di acquisire competenze. Un approccio più positivo non solo è più efficace, ma anche più realistico” si legge sul documento, con a seguire le indicazioni per genitori e professionisti.
L’educazione sessuale e all’affettività è una delle grandi lacune italiane, quindi interessante? Un buon segno? Di certo, ma sappiamo bene che stilare un documento su quello di cui avremmo bisogno non farà sì che, magicamente, l’educazione sessuale e all’affettività entrino nelle scuole o che il Paese si riempia di asili nido comunali e servizi adatti a consentire davvero una maternità e paternità responsabile e consapevole. Molti ricorderanno cosa è successo con “Il gioco del rispetto“, che ci ha chiarito la difficoltà di innovare e portare nel presente -e nel futuro- italiani determinati aspetti di quest’educazione: forse, più che di un documento generico che si rifà alle linee guida OMS, avremmo bisogno di un piano davvero mirato per l’Italia che tenga conto di tutti questi dettagli. Non solo per l’educazione sessuale ma anche per rimuovere quegli ostacoli che davvero frenano una giovane coppia dal cercare un bambino (non si tratta solo della moderna propensione a “egoismo e individualismo”, come più volte si ribadisce nel documento ministeriale).
La lettura di queste pagine, bisogna dirlo, porta a un risultato diverso rispetto all’impatto delle “cartoline” per il Fertility Day. Dopo essersi presi la briga di leggerlo il piano del Ministero della Salute ritorna a sembrare un’iniziativa non degli anni ’20, ma resta a tratti l’impressione che gli aspetti culturali della denatalità siano ancora attribuiti principalmente alla donna (=madre) e che di lavoro da fare al Ministero ne abbiano ancora molto. Non a caso il documento, pur premettendo che “Siamo, ancora, un Paese che dal punto di vista culturale ha fortemente interiorizzato la questione della asimmetria dei ruoli nei modelli, sia da parte degli uomini che delle donne” recita anche che “L’organizzazione ingegnosa che serve a far quadrare il ritmo delle giornate di una mamma, la flessibilità necessaria a gestire gli imprevisti, la responsabilità e le scelte implicite nel lavoro di cura, le energie che quotidianamente mette in campo una madre sono competenze e potenziali ancora da esplorare e capire come incentivare e utilizzare al rientro al lavoro”. Di una mamma.
L’impressione si acuisce quando si passa dalla rigorosa trattazione del fibroma uterino o dagli accurati dati Eurostat a una serie di passaggi di contorno, che non avrebbero dovuto trovare spazio in un documento ministeriale. Ne riportiamo alcuni
-Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità.
-La crescita del livello di istruzione per le donne ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione di nuovi nuclei familiari, sia un vero e proprio minore investimento psicologico nel rapporto di coppia, per il raggiungimento dell’indipendenza economica e sociale.
-Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? La collettività, le istituzioni, il competitivo mondo del lavoro, apprezzano infatti le competenze femminili, ma pretendono comportamenti maschili.
-Certo è già abbastanza difficile essere una buona moglie, una buona madre, una donna in carriera; lo è ancora di più essere tutte queste cose contemporaneamente. Le donne che dicono un “no” a priori alla maternità sono, comunque, una minoranza.
(modifica, venerdì 2 settembre ore 9:10) Questi passaggi in particolare non sono passati inosservati a un folto gruppo di psicologi, che ha scritto una lettera aperta al ministro Lorenzin per segnalare l’inadeguatezza della campagna -la trovate qui-.
Quasi completamente al di fuori della trattazione, infine, resta il fatto che ci siano donne e uomini che scelgono consapevolmente di non avere figli e non vi rinunciano per motivi legati all’insicurezza lavorativa, sociale o altro. Oltre a non considerare -in una complessa narrazione che abbraccia davvero tutti gli aspetti della denatalità- un aspetto culturale non da poco, si rischia di far passare il messaggio che se non pianifichi figli non devi stare poi così attento alla tua salute sessuale e riproduttiva. L’impressione è la stessa, ovviamente, se si guardano le sole cartoline, che avrebbero per definizione dovuto “riassumere” gli intenti di prevenzione e informazione della campagna. Arrivando a tutta la popolazione con i punti essenziali di un documento di 137 pagine. Non resta che aspettare il 22 settembre.
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