Obiezione di coscienza sull’aborto: ecco perché è un’aberrazione etica
A un convegno su Gravidanza e disagio sociale, il quadro sull'obiezione di coscienza in Italia e un intervento del filosofo Giovanni Boniolo sulle complicazioni etiche di questo "diritto"
GRAVIDANZA E DINTORNI – Maria è romena, ma vive da tempo in Italia. È infermiera in un reparto di oncologia, ha 42 anni e aspetta un bambino. Ha trovato da poco “l’uomo della sua vita”, come dice lei, e nonostante l’età non più giovanissima è arrivata subito una gravidanza. Per i primi controlli, Maria si rivolge al reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale in cui lavora. Nessuno le parla di diagnosi prenatale. Anzi: se lei chiede informazioni, i medici tendono a rassicurarla sul fatto che il bambino starà bene. Con l’avanzare delle settimane, però, Maria decide di non voler correre rischi e richiede un’amniocentesi, che infine rivela quello che non avrebbe mai voluto sentirsi dire: il bimbo è affetto dalla sindrome di Down.
Maria e il compagno pensano, riflettono, ripensano e alla fine la donna comunica la volontà di interrompere la gravidanza alla ginecologa, che le prescrive una visita psichiatrica. Al termine della visita, però, la psichiatra dichiara a Maria che non vede ragioni per le quali non possa portare avanti la gravidanza. Ormai disperata, lei torna dalla ginecologa che finalmente, pur dicendole di essere contraria all’aborto, le indica un altro centro al quale rivolgersi. Qui le viene spiegato che la valutazione psichiatrica non era obbligatoria e viene programmato il ricovero per l’aborto terapeutico. Sulla carta la procedura è semplice: somministrazione successiva, per via vaginale, di ovuli di prostaglandine per indurre un travaglio abortivo. Però ci vuole tanto tempo. E tanto dolore. Maria racconta di aver saputo, in seguito, che in alcuni ospedali prima degli ovuli danno una pillola di mifepristone (l’RU486), che sensibilizzando l’utero all’azione dei farmaci riduce tempi e sofferenze del travaglio. A lei però non l’hanno data.
Quella di Maria è una delle storie raccontate al convegno su Gravidanza e disagio sociale organizzato a Milano l’11 e 12 ottobre 2016 dalla Fondazione Giorgio Pardi per ricordare due maestri dell’ostetricia italiana: Giorgio Pardi, appunto, e Mauro Buscaglia. È la storia di un percorso a ostacoli pur nell’ambito di un diritto previsto per legge, la 194 del 1978: dalla negazione delle informazioni sulla diagnosi prenatale – “un atteggiamento criminale” secondo la presidentessa del convegno Anna Maria Marconi, direttrice della clinica ostetrica presso l’ospedale San Paolo di Milano – all’umiliazione di una valutazione psichiatrica non obbligatoria, dal rimpallo tra centri alla mancata applicazione di un protocollo medico ormai riconosciuto e utilizzato a livello internazionale.
Come ogni volta che si parla di interruzione di gravidanza, dunque, il racconto di Maria diventa inevitabile occasione per affrontare l’aspetto più critico di questo intervento: l’obiezione di coscienza. Un tema decisamente caldo per il nostro Paese, se perfino una sentenza del Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha riconosciuto che, proprio a causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori, l’Italia viola i diritti delle donne che intendono abortire alle condizioni previste per legge. Oltre che – dice una seconda sentenza – quelli dei medici non obiettori, costretti a vivere una serie di svantaggi professionali tra un lavoro spesso appiattito sulle sole interruzioni e la riduzione delle prospettive di carriera.
I dati oggi a disposizione sono quelli, relativi al 2013, della relazione annuale al Parlamento sulla legge 194 del Ministero della salute e parlano di 7 ginecologi obiettori su 10 sul territorio italiano. Con profonde disparità regionali: dal 13% di obiettori dell’Abruzzo al 93% del Molise. “E non è escluso che qualche dato sfugga”, ha precisato al convegno Angela Spinelli del Centro Nazionale di Epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute, che raccoglie i dati per il Ministero. Potrebbe trattarsi di una sottostima, perché non esiste un vero e proprio registro degli obiettori e può anche darsi che all’interno di strutture di natura cattolica i singoli medici non facciano dichiarazione formale di obiezione, implicita nel fatto di lavorare lì.
Al di là del dato crudo, però, il punto è chiedersi se questi 3 medici non obiettori su 10 siano o meno sufficienti per garantire il diritto all’interruzione di gravidanza alle donne italiane. Per qualcuno la risposta è sì: bastano, anche perché – dicono i dati – i tassi di abortività nel nostro Paese sono in progressiva diminuzione. Per altri – le sentenze del Comitato del Consiglio d’Europa lo dimostrano – la risposta è no. “I dati che registrano una diminuzione degli aborti non tengono conto della cifra oscura relativa alle richieste inevase per carenze organizzative”, ha precisato l’avvocato Benedetta Liberali, esperta di aspetti giuridici relativi a obiezione di coscienza e procreazione medicalmente assistita. “Dove non ci sono medici non obiettori, le interruzioni di gravidanza non si fanno, mentre per definizione gli aborti clandestini non vengono registrati”. In ogni caso, anche se in linea teorica i medici non obiettori disponibili potrebbero essere sufficienti, la frammentazione a livello regionale e addirittura locale complica le cose: a fronte di situazioni in cui il servizio è garantito senza grosse difficoltà ce ne sono altre in cui non lo è per niente, determinando un’inaccettabile discriminazione su base territoriale.
Una chiara limitazione di un diritto, dunque. E come se non fosse già abbastanza, non è neppure questo l’unico problema relativo, oggi, all’obiezione di coscienza sull’interruzione di gravidanza come prevista dall’articolo 9 della legge 194. Che Giovanni Boniolo, ordinario di filosofia della scienza e medical humanities all’Università di Ferrara, legge nel complesso come “semplicemente aberrante dal punto di vista etico”. Per spiegare la sua posizione, al convegno Boniolo ha chiamato in causa un’altra obiezione di coscienza, quella sul servizio militare. Sorvolando velocemente sul fatto che i primi obiettori (dalla Grande guerra in poi) venivano fucilati o mandati in galera, Boniolo si è soffermato sulla prima legge in merito, promulgata nel 1972. “Prevedeva che l’aspirante obiettore presentasse domanda a una commissione composta da un magistrato di cassazione, un militare in servizio, un professore universitario di discipline morali, un sostituto avvocato generale dello Stato e un esperto in psicologia. Se veniva approvata, a chi non voleva toccare armi toccavano in cambio otto mesi di servizio sostitutivo in più rispetto a quello miliare”. Insomma, la conquista della possibilità di obiettare era sudata e comportava un certo prezzo.
Tutt’altra storia, invece, con l’obiezione di coscienza sull’aborto. “A parte il fatto che nessuno è obbligato a fare il medico in una struttura che pratica interruzioni di gravidanza, come invece si era obbligati al servizio militare, c’è il tema della verifica dell’autenticità dell’obiezione”, ha ricordato Boniolo. “Chi voleva essere esentato dall’obbligo di portare le armi doveva dimostrare le ragioni che lo spingevano a quella scelta, mentre per l’aborto basta una comunicazione al direttore sanitario”. In più c’è la questione dei costi per la collettività. “Fare obiezione al servizio militare non costava nulla alla collettività, mentre i medici obiettori costano eccome. Perché se la struttura in cui lavorano vuole garantire comunque il servizio, deve pagare qualcun altro che lo faccio al posto loro (che intanto mantengono pieno stipendio). E se non vuole farlo, limita l’accesso a un diritto”.
Da qualunque parte si guardi la faccenda, dunque, c’è qualcosa che non va. Tanto che sempre più spesso i medici non obiettori sollevano richieste di modifica della situazione. Se ne è parlato sempre al convegno, con le proposte avanzate da Anna Uglietti, direttrice della Unità operativa su legge 194 e piccoli interventi del Policlinico di Milano. Per esempio: “Trovare soluzioni giuridico-amministrative che consentano l’assunzione negli ospedali di medici non obiettori, affidare agli obiettori lavori routinari in più, per compensare quello che non fanno, dare ai non obiettori accesso privilegiato alle attività più ambite, come la formazione chirurgica“.
Proposte che, in sala, hanno suscitato del malcontento in qualche obiettore, che ha invocato il diritto al rispetto delle sue posizioni. “Ma è comodo mettersi a posto con la propria coscienza, se intanto c’è qualcun altro che paga”, ha commentato Boniolo. Ricordando in conclusione come il terreno, in questo ambito, sia parecchio scivoloso. “Perché un conto è accogliere e cercare il più possibile di garantire i diritti anche delle minoranze, un altro è violare, in nome di questi diritti, quelli di altri cittadini, per di più previsti per legge. C’è il rischio di mandare in fumo l’idea stessa di uguaglianza di tutti di fronte alla legge. E allora sarebbe il caos”.
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