La fusione della calotta glaciale e le trasformazioni climatiche
“Se immaginiamo che la storia si possa ripetere e che da qui al 2300 il livello del mare si innalzi di altri 20 metri, Trieste sarebbe completamente sommersa; Parigi inondata e l’Olanda non esisterebbe più. Se un evento simile si verificasse tra 300 anni, non lo riusciremmo ad affrontare nemmeno con tutta la tecnologia che abbiamo oggi”.
TRIESTE CITTÀ DELLA SCIENZA – L’Artico si sta riscaldando a un ritmo senza precedenti, negli ultimi 30 anni si è scaldato più di qualsiasi altra regione sulla Terra causando un rapido cambiamento ambientale del ghiaccio marino, del manto nevoso e dell’estensione del permafrost.
I cambiamenti nel clima artico sono importanti perché l’Artico agisce come un frigorifero per il resto del mondo, contribuendo a raffreddare il pianeta.
L’ultima grande fusione della calotta glaciale artica risale a circa 14 mila anni fa e ha portato sconvolgimenti climatici e ambientali fino alle zone tropicali. Questo è il principale risultato raggiunto dal progetto ARCA (ARctic: present Climatic change and pAst extreme events), che ha coinvolto l’OGS di Trieste, il CNR e l’INGV.
Il progetto si proponeva di studiare i meccanismi che regolano la dinamica delle calotte glaciali, il flusso di acqua dolce e i sedimenti nell’oceano e di ricostruire la storia degli eventi estremi di fusione sub glaciale negli ultimi 20.000 anni. “ARCA è stato il primo progetto finanziato a livello nazionale (ndr dal Ministero dell’Istruzione) a raggruppare i tre principali enti che lavorano in Artico”, sottolinea Michele Rebesco dell’OGS. “Ciò ha favorito non solo la collaborazione tra scienziati ma anche la creazione di banche dati comuni e la condivisione dei risultati”.
Studiare cosa è successo nel passato è la chiave per poter prevedere correttamente cosa accadrà nel futuro e soprattutto per capire come comportarsi nel presente. Negli ultimi anni sono stati elaborati diversi modelli matematici per lo studio del clima e per valutarne l’attendibilità, i ricercatori cercano di ricostruire il passato in modo da confrontare lo scenario ottenuto dalla simulazione con le informazioni raccolte sul campo.
Circa 14 mila anni fa si è verificato un importante sbalzo nello scioglimento dei ghiacci che, nell’arco di 300 anni, ha causato un innalzamento del livello del mare di 20 metri. “Se immaginiamo che la storia si possa ripetere”, continua Rebesco, “e che da qui al 2300 il livello del mare si innalzi di altri 20 metri, Trieste sarebbe completamente sommersa; Parigi inondata e l’Olanda non esisterebbe più. Se un evento simile si verificasse tra 300 anni, non lo riusciremmo ad affrontare nemmeno con tutta la tecnologia che abbiamo oggi”.
Questo scioglimento era noto da tempo, grazie agli studi sugli atolli corallini presenti ai tropici. Si tratta di formazioni che vivono a profondità marine basse e quando il livello del mare si alza, la luce non riesce a raggiungere i coralli e questi muoiono. Studiando la morte degli atolli corallini, quindi, gli scienziati sono riusciti a quantificare l’innalzamento del mare avvenuto in passato e a fare ipotesi sulle possibili cause.
Il progetto ARCA è riuscito per la prima volta a tracciare lo scioglimento del ghiaccio anche in Artico. “Pensiamo che l’evento sia dovuto all’aumento delle temperature delle correnti marine”, spiega Rebesco. “La corrente del Golfo, per esempio, è una corrente nord atlantica abbastanza calda che si origina dal golfo del Messico, fluisce lungo le coste europee e arriva fino a nord delle isole Svalbard. Per questo il clima del nord Europa è relativamente mite, se pensiamo all’emisfero sud, alle stesse latitudini della Scandinavia l’assenza della corrente del Golfo porta a kilometri di ghiaccio e a una terra disabitata”.
Le correnti marine hanno grandissima importanza soprattutto nel controllo dell’equilibrio termico: se queste correnti si spostano o si affievoliscono, generano immediatamente un brusco calo della temperatura. C’è anche un meccanismo di feedback: lo scioglimento dei ghiacci a sua volta rallenta le correnti perché si immettono in mare grandi quantità di acqua dolce e ciò va a influire ulteriormente sull’equilibrio climatico.
Per ottenere questi risultati, i ricercatori di ARCA hanno fatto dei campionamenti nella regione nord occidentale del Mare di Barents, a livello delle isole Svalbard e dell’isola degli Orsi. Fino a 20 mila anni fa, questa zona era ricoperta di ghiacci che poi, 18mila anni fa, hanno cominciato a ritirarsi tanto che oggi sulle Svalbard ci sono ancora solo piccoli ghiacciai terrestri mentre il più grosso ghiacciaio dell’emisfero nord è rimasto quello della Groenlandia.
Gli studi che sono stati condotti sono diversi. In primo luogo rilievi geofisici del fondo del mare che analizzano in maniera indiretta i segni lasciati dal ghiacciaio. “Un po’ come le radiografie che i dottori usano per vedere se un osso è rotto”, racconta Rebesco. “Sono immagini indirette, ma poi se l’osso è rotto bisogna intervenire in modo diretto. Lo stesso vale per i nostri rilievi, una volta che abbiamo visto in che direzione si è mosso il ghiacciaio, con quale velocità o se è rimasto stabile per un certo periodo di tempo, facciamo campionamenti di sedimento”. Le carote di fondale vengono poi analizzate in laboratorio per riuscire a ricostruire i cosiddetti proxy, cioè indicatori che danno una stima delle condizioni ambientali passate, dalla datazione alla temperatura delle acque profonde e superficiali, all’ossigenazione delle acque.
Oltre ai campioni di sedimento, i ricercatori di ARCA hanno usato dei sismometri posizionati sul ghiaccio, per registrare i criosismi (o icequake). Il ghiaccio, infatti, è un fluido ad altissima densità che scende dal centro della calotta della Groenlandia verso Barents e che, quando si stacca, provoca piccoli tremori, detti criosismi. I sismometri registrano queste scosse e i dati raccolti vengono usati per monitorare la formazione degli iceberg e il movimento della calotta della Groenlandia.
Sempre alle Svalbard sono state condotte analisi di tipo atmosferico per controllare i parametri del cambiamento climatico in atto, come temperatura, irraggiamento, concentrazione di anidride carbonica (CO2). “Tutte le informazioni puntano in maniera sensibile verso un graduale riscaldamento” afferma Rebesco. “Bastano misure anche molto semplici, quando scompare l’ultima neve a terra e quando ricompare l’anno dopo oppure la temperatura del terreno in un certo periodo. Quanto sia dovuto alla componente umana e quanto alla variabilità naturale ancora non è certo ma c’è sicuramente un cambio in atto ed è altamente probabile che l’uomo vi abbia un’influenza significativa. Quello che possiamo fare è controllare l’immissione di CO2 responsabile dell’effetto serra”.
Mi chiamo: Michele Rebesco
Vengo da: Bussolengo (Verona)
Lavoro presso: Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – Ogs di Trieste
Mi occupo di: Geologia
Che cosa faccio: Esplorazione Geologica/Geofisica dei margini polari focalizzata ai processi deposizionali e alla ricostruzione della storia glaciale. Interazione di processi sedimentari di mare profondo paralleli e perpendicolari alla scarpata. Ricerca integrata del Sistema Terra Solida per contribuire sia allo studio del cambiamento climatico globale e del paleoclima, in particolare alle alte latitudini (poli), meridionali e settentrionali, sia allo studio del rischio geologico, in particolare frane sottomarine e instabilità.
Leggi anche: Quanto erano estesi i ghiacci artici in passato?
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.