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Terremoti e inquinamento per l’estrazione di idrocarburi: la minaccia della reiniezione

La tecnica della reinezione è una best practice o un'attività pericolosa? Tra il rischio di causare terremoti e la possibile fuoriuscita di inquinanti la pratica di iniettare in profondità gli scarti delle lavorazioni industriali appare tutt'altro che sicura.

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Con la reiniezione, l’acqua di scarto utilizzata per il fracking è immessa nuovamente in profondità. Crediti immagine: Joshua Doubek

APPROFONDIMENTO – Lo scorso 3 settembre 2016 un terremoto di magnitudine 5.6, in seguito rivalutato a 5,8, scuoteva l’Oklahoma. Nel 2015, invece, a seguito della puntata del 22 febbraio del programma Presa Diretta la professoressa Colella, ordinaria di geologia presso l’università di Basilicata, veniva diffidata dall’Eni. I due fatti, apparentemente così distanti, sono in realtà uniti dallo stesso filo comune che porta il nome di reiniezione, ovvero la pratica di iniettare nel sottosuolo a grande profondità gli scarti di lavorazioni industriali.

L’Oklahoma, uno stato del midwest americano, fino a pochi anni fa era noto soprattutto per essere la terra dei tornado. Oggi però è riuscito a diventare anche la capitale mondiale dei terremoti. Eppure fino a qualche anno fa quel territorio non era considerato sismico: in una superficie grande poco più della metà dell’Italia, dal 1978 al 2008 vi venivano registrati infatti solo una-due scosse l’anno di magnitudine superiore a 3. Nel solo 2015 le scosse invece sono state oltre 890, di cui circa 30 di magnitudine superiore a 4. Ancor più sconcertante è la rapidità con cui sono cresciuti il numero e l’intensità dei terremoti negli ultimi otto anni. Considerando magnitudini superiori a 3, nel 2008 si sono contate solo 2 due scosse. L’anno successivo però già salivano a 20. L’incremento di terremoti è proseguito fino al 2013 con 109 per poi balzare a 585 nel 2014, e infine a 890 del 2015. Proprio i dati degli ultimi due anni rendono l’Oklahoma la zona a più alta densità sismica al mondo, anche più della California, del Cile o del Giappone. Ma cosa si sta muovendo nel sottosuolo dello stato americano?

Semplicemente acqua, o meglio, acqua di scarto insieme a residui di lavorazione di idrocarburi e fanghi di perforazione utilizzati nel fracking. L’Oklahoma infatti poggia su un enorme giacimento di idrocarburi immagazzinati in rocce poco permeabili, che è diventato pienamente sfruttabile solo di recente con lo sviluppo delle tecniche di fratturazione idraulica, il cosiddetto fracking. Nei giacimenti classici gli idrocarburi sono contenuti in rocce porose che permettono ai fluidi di muoversi. Quando però i fluidi sono intrappolati è necessario spaccare le rocce del giacimento per creare fratture in cui gas e petrolio possano muoversi liberamente, e per farlo si pompa acqua a grandissima pressione mischiata a sostanze chimiche che fungono da lubrificante e a sferule di ceramica o ghiaia che impediscono alle fratture di richiudersi. A volte si usano anche sostanze radioattive per tracciare i movimenti dell’acqua nel sottosuolo. Se questa tecnica può andare a sollecitare faglie preesistenti creando piccoli terremoti, problemi ben più grandi li dà la reiniezione. Le attività di estrazione di idrocarburi infatti producono una grande quantità di acqua di scarto, detta acqua di produzione. Questa è formata in parte da acqua che fuoriesce insieme al petrolio e in parte da acque di lavorazione, e al suo interno sono presenti residui di idrocarburi, elementi radioattivi naturali, minerali e metalli pesanti di vario tipo, agenti chimici industriali e fanghi di perforazione. Insomma, si tratta di un vero e proprio scarto nocivo e inquinante che richiede un adeguato trattamento. Poiché i volumi di questi scarti sono molto notevoli, un loro trattamento di depurazione sarebbe troppo oneroso. La soluzione trovata dall’industria ormai molti decenni fa – e tuttora considerata una best practice a livello internazionale – consiste nel reiniettare l’acqua di produzione a grande pressione sotto terra, magari usando vecchi pozzi ormai esauriti. Così facendo si va a reimmettere quest’acqua a migliaia di metri di profondità, nelle rocce serbatoio da dove è stata estratta e dove era stata trattenuta per millenni senza che fuoriuscisse. In alternativa si possono utilizzare anche altri strati di roccia permeabile che possano contenerla a grande profondità. Teoricamente la presenza di roccia impermeabile al di sopra di queste rocce serbatoio dovrebbe garantire che questi liquidi non possano migrare in superficie andando a contaminare acque e rocce superficiali.

Con la pratica del fracking i volumi di acqua di scarto prodotti aumentano moltissimo, perché per fratturare le rocce si usa un’enorme quantità di acqua ricca di additivi chimici e sostanze di scarto. Acqua che riemerge in seguito dai pozzi insieme al petrolio e va quindi smaltita. Da quando si è cominciato a usare la tecnica del fracking, in Oklahoma la produzione di idrocarburi è aumentata notevolmente, così come la quantità di acqua reiniettata. Con il tempo è diventato evidente che sia il fracking sia la reiniezione possono causare terremoti di lieve entità e anche piccoli sciami sismici. La pressione dei liquidi iniettati infatti è notevole, e può aprire piccole faglie o sollecitarne di preesistenti. In questi casi, in profondità l’acqua funziona come un lubrificante, aiutando le rocce a dissipare tensioni che si erano accumulate nel corso di secoli o millenni. Industria e autorità politiche basandosi su studi scientifici avevano sostenuto che considerate le piccole energie in gioco non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Non è stato un caso, però, che esattamente da quando si sono cominciati a reiniettare enormi volumi di acqua nel sottosuolo americano interi stati siano stati scossi da terremoti sempre più numerosi e sempre più intensi. Il problema infatti non si limita al solo Oklahoma, ma si estende quasi ovunque vi siano pozzi di petrolio e gas. Anche in Gran Bretagna, il fracking ha portato con se terremoti e polemiche.

Con i suo passaggio da due a 890 scosse di terremoto in sette anni, l’Oklahoma è diventato un caso emblematico. Nell’arco di pochi anni un territorio che non era preparato ai terremoti ha visto arrivare scosse superiori al quinto grado, con milioni di dollari di danni. Per anni le compagnie petrolifere e le autorità hanno negato con forza qualsiasi nesso, ma alla fine l’evidenza ha avuto la meglio. Dopo il terremoto del 3 settembre 2016, la governatrice dell’Oklahoma si è vista costretta a chiudere più di 30 pozzi di reiniezione. Nel frattempo la comunità scientifica – riconoscendo e denunciando sempre di più un nesso tra reiniezioni e terremoti, anche di forte intensità – ha continuato a indagare il fenomeno. Negli ultimi anni sono stati così prodotti numerosi studi sulla questione, tanto che oggi il problema viene dato per assodato (ma non era così appena tre o quattro anni fa). Uno degli ultimi studi, pubblicato su Science, ha evidenziato quali siano i meccanismi in gioco. Grazie a dati satellitari, la ricerca ha misurato i sollevamenti del terreno causati dalla pressione dell’acqua nel sottosuolo, mostrando in modo inequivocabile il collegamento con l’innesco di terremoti anche di una certa intensità. Gli scienziati hanno inoltre rilevato come gli effetti dell’iniezione dell’acqua si avvertano ad anni di distanza a causa delle pressioni accumulate che richiedono diverso tempo per riequilibrarsi.

Quello dei terremoti però non è l’unico problema legato alla pratica della reiniezione. Un pericolo potenzialmente maggiore viene infatti dall’inquinamento. Quando si iniettano sostanze inquinanti nel sottosuolo lo si fa perché si suppone che rimangano lì, o almeno, che rimangano lì abbastanza a lungo. In effetti in condizioni normali il movimento delle falde idriche profonde è sull’ordine di grandezza di pochi metri l’anno. La presenza di spessi strati di roccia impermeabile dovrebbe garantire che in nessun modo l’acqua possa risalire in superficie, così come non lo hanno fatto in milioni di anni gli idrocarburi intrappolati lì sotto. Per la migrazione di questi liquidi si parla di tempi attorno a 10 000 anni, e in ogni caso superiori a 1000 anni. Spostandosi nelle rocce in un tempo così lungo quell’acqua dovrebbe perdere le caratteristiche di partenza, con la deposizione di alcune sostanze e il discioglimento di altre. Per questo si è pensato che la reiniezione fosse una pratica ragionevolmente sicura, ed è stata considerata la migliore strategia di smaltimento degli scarti dell’industria petrolifera (ma anche chimica e mineraria in alcuni paesi). Sul sito dell’Eni per esempio si legge che non vi è alcun rischio ambientale, mentre di terremoti non si parla affatto. Ma è vero che una volta pompati a pressioni altissime questi fluidi rimangano confinati in profondità senza risalire? Andando a contare gli episodi di contaminazione ambientale che si sono ripetuti nel corso degli anni non si direbbe. Nei soli Stati Uniti se ne contano moltissimi a partire già dagli anni Sessanta. Nel 2012 un’inchiesta di ProPublica, un’autorevole testata investigativa americana, ha sollevato scenari davvero inquietanti sulla sicurezza di questa pratica. Tra le decine di gravi incidenti riportati, si segnala come caso emblematico la contaminazione delle acque superficiali attorno a Miami da parte di sostanze molto tossiche che erano state reiniettate nel corso degli anni Ottanta e Novanta a grande profondità. La questione era stata studiata attenamente e gli esperti si erano detti sicuri che immettere questi inquinanti al di sotto di uno spesso strato impermeabile nel sottosuolo della Florida non avrebbe costituito un pericolo. Nel corso di una decina di anni invece questi fluidi sono riemersi, contaminando una falda potenzialmente sfruttabile a uso potabile. Quello che è emerso dall’inchiesta di ProPublica è che malgrado vi siano studi e normative che dovrebbero garantire grande sicurezza qualcosa non funziona. A volte è la presenza di vecchi pozzi ormai dimenticati che riconduce rapidamente in superficie enormi quantità di acqua di reiniezione, a volte sono le camicie dei pozzi a essere lesionate rilasciando gli inquinanti in falde superficiali. Purtroppo i controlli di sicurezza in questi casi spesso non si sono rivelati così stringenti, facendo trascorre anni prima che le falle fossero bloccate o consentendo alle industrie anche la reiniezione di sostanze non autorizzate. A volte semplicemente, come nel caso di Miami, la conoscenza del sottosuolo non si è rivelata sufficiente. Faglie nascoste, fratturazioni nella roccia e grandi pressioni indotte dalla reiniezione possono rendere un colabrodo uno strato di roccia virtualmente impermeabile. E così sostanze che mai e poi mai sarebbero dovute riemergere nei prossimi 10 000 anni sono risalite in superficie in appena 10 anni. Quello che è chiaro è che c’è una grande ignoranza della struttura del sottosolo e dei fenomeni che vi avvengono, anche quando siamo convinti di saperne abbastanza da autorizzare attività potenzialmente pericolose.

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Vincenzo Senzatela
Appassionato di scienze fin da giovane ho studiato astrofisica e cosmologia a Bologna. In seguito ho conseguito il master in Comunicazione della Scienza alla SISSA e ora mi occupo di divulgazione scientifica e giornalismo ambientale