Himalaya e mega terremoti: la nuova mappa del rischio sismico
Un modello 2D mostra come i forti terremoti dell'Himalaya, di magnitudo superiore a 8.5, concorrano alla formazione di sismi ancora più violenti.
Una nuova mappa del rischio sismico che riguarda la faglia dove sorge la catena montuosa dell’Himalaya e la pianura indo-gangetica dove vivono oltre 400 milioni di persone spiega che terremoti superiori a magnitudo dell’8.5 potrebbero verificarsi nella zona. Prevedere un terremoto a oggi non è possibile, ma grazie al lavoro di geofisici come Luca Dal Zilio del Politecnico di Zurigo in collaborazione col California Institute of Technology è possibile indicare in modo più preciso quali sono le zone a rischio.
Un nuovo studio coordinato proprio da Dal Zilio e pubblicato sulla rivista Nature Communications spiega come la gigantesca faglia dell’Himalaya, che divide la placca eurasiatica da quella indiana, sia a rischio di violenti e catastrofici terremoti, soprattutto perché eventi sismici come quello del Nepal del 2018 con magnitudo del 7.8 possono concorrere alla formazione di terremoti ancora più distruttivi. Dal Zilio spiega l’importanza del nuovo modello messo a punto durante il suo dottorato presso il dipartimento di Geophysical Fluid Dynamics della ETH Zürich, modello che non tiene conto solo dei dati storici ma anche di quelli fisici e soprattutto della geometria della faglia:
“Anche nella prima versione avevamo sviluppato un modello unidimensionale e uno bidimensionale, ma nel nuovo studio ciò che cambia è la configurazione del iniziale del modello, che si avvale di una risoluzione altissima di circa 200 metri, molto più alta di quella utilizzata per un modello di questo tipo”.
Il nuovo modello infatti è stato realizzato basandosi sui dati relativi al terremoto del 2015 in Nepal, che ha fornito preziose informazioni sia sulle caratteristiche del sisma che della struttura della crosta della faglia, ci spiega il ricercatore:
“Sono molti i sismologi che hanno lavorato nella zona e i dati sono stati utilizzati per determinare in questo caso la geometria della faglia stessa, ad esempio come è posizionata in profondità. A partire dai dati, abbiamo creato un modello numerico che per la prima volta riproducesse il più possibile, limitatamente alle incertezze delle misurazioni e alla risoluzione, una struttura interna dell’Himalaya e la geometria della faglia così com’è oggigiorno”.
Il modello sfrutta una geometria non planare
Per oltre due settimane il modello ha girato sui supercomputer del Politecnico di Zurigo e il risultato è stato molto importante, ci spiega Dal Zilio:
“Abbiamo iniziato così a vedere qual era l’effetto dell’introduzione della geometria, che non è planare, ma presenta zone dove la faglia è meno ripida e si alterna in regioni, dette rampe, dove invece è molto ripida. La struttura si presenta come irregolare e questo crea una distribuzione dei terremoti eterogenea e questo ci ha permesso di osservare come eventi simili a quello del 2015 in Nepal non implicano solo una rottura della parte inferiore e più profonda della faglia, ma c’è un vero e proprio trasferimento di stress anche nella regione frontale e più superficiale, andando a ricaricare anche la parte superiore della faglia stessa.
Questo comporta che 2 o 3 terremoti di magnitudo simile a quella dell’evento in esame sono in grado di ricaricare la parte superiore della faglia e di creare un livello di stress molto alto anche nella parte superficiale, creando le condizioni per un successivo terremoto di magnitudo superiore e in grado di propagare la rottura fino in superficie, con conseguenze catastrofiche”.
Terremoti con magnitudo superiore a 8.5
Il potere distruttivo di un sisma con magnitudo superiore a 8.5 è particolarmente di rilievo per la catena dell’Himalaya, dato che la faglia si estende per 100 chilometri in profondità e per 2mila chilometri in lunghezza proprio davanti alla pianura indo-gangetica, una delle zone più densamente popolate della Terra, come spiega Dal Zilio:
“Il terremoto così formato si potrà espandere maggiormente lungo l’arco dell’Himalaya, con le rotture della faglia che dunque non si propagheranno solo in superficie, ma anche verso est e verso ovest. Ad esempio, ci sono zone in cui si sono verificate rotture parziali della faglia, eventi simili a quello del 2015; l’ultimo terremoto di magnitudo di 8.6 si è verificato nel 1950, mentre un evento sismico che ha interessato un’area ancora più grande della faglia risale addirittura al 1505. Questo significa che quella zona non è soggetta a rotture da oltre 500 anni e lo stress accumulato è molto alto, tanto da renderla una delle zone più ad alto rischio per il verificarsi di un violento sisma con magnitudo superiore a 8.5“.
Nonostante una magnitudo del 7.8, come quella del 2015 in Nepal, possa sembrare elevata, il geofisico spiega che si tratta di terremoti considerati “moderati”. Il modello sviluppato consente di determinare le zone in cui si accumula maggiormente lo stress e dunque quelle a maggior rischio di eventi sismici catastrofici. Però c’è un limite: quello di non poter determinare quanto le rotture si estendano orizzontalmente in superficie, spiega Dal Zilio:
“Si tratta dell’aspetto dell’estensione a lungo arco del sisma, cioè quanto i singoli eventi possano espandersi lateralmente. Noi sappiamo che quando una rottura arriva in superficie, poi tende a espandersi per distanze che sono molto maggiori di quelle delle rotture parziali osservate per la faglia. Questo limite è dettato dal fatto che operiamo con un modello bidimensionale e per superarlo stiamo implementando il nuovo codice in un modello tridimensionale, che riesca a valutare anche l’interazione che avviene lateralmente con lo stress. Inoltre abbiamo osservato che lo stress non è omogeneo nella sua propagazione e anche questo aspetto andrà approfondito nei prossimi modelli che svilupperemo”.
L’innovazione del modello d’altronde risiede proprio nel fatto dell’introduzione di una geometria non planare per la faglia, ma irregolare spiega il ricercatore:
“A oggi la maggior parte dei modelli tende a simulare cicli di terremoti su faglie planari, per una questione di semplicità del calcolo. Introducendo come in questo caso delle variazioni per la struttura della faglia, abbiamo potuto osservare gli stress che indicano l’interazione tra i terremoti relativamente moderati e quelli giganti definiti come giganti”.
Future applicazioni
La potenzialità del modello sta anche nella sua possibilità di future applicazioni per altre faglie e altre aree, come quella dell’Appennino, martoriato dai terremoti del centro Italia che hanno interessato L’Aquila, Amatrice e Norcia. Il geofisico ha commentato:
“L’utilizzo per la prima volta dell’integrazione dei dati sismologici con quelli geologici in un unico modello lo rende applicabile anche in altre aree del mondo, come quella dell’Appennino in Italia. I dati sismologici raccolti dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e quelli relativi alla faglia un giorno potrebbero essere utilizzati per creare un nuovo modello, anche se al momento non si tratta di un lavoro facile.
Prendiamo ad esempio la sequenza che ha interessato prima L’Aquila, poi Amatrice e Norcia. Secondo alcuni studi si ritiene che sia stata provocata da un possibile effetto domino tra le faglie, ma al momento non ne abbiamo certezza. La zona dell’Appennino infatti è costituita da una struttura geologica molto complessa e frammentata, con un sistema di piccole faglie che interagiscono l’una con l’altra, dunque le loro geometrie sono complicate e per poterne comprendere l’interazione sarà necessario avere dati in una risoluzione ottimale e soprattutto un modello numerico tridimensionale”.
Il prossimo passo per Dal Zilio e colleghi è dunque quello di continuare a studiare la faglia dell’Himalaya per poter sviluppare un modello tridimensionale che possa poi essere applicato anche per altre strutture geologiche e aree sismiche, riuscendo a ottenere un risultato che potrà essere utilizzato per sviluppare mappe del rischio sismico sempre più dettagliate e precise.
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