La tortura secondo le neuroscienze
Secondo il Presidente Donald Trump la tortura funziona, ma cosa dice la scienza in proposito?
APPROFONDIMENTO – “Absolutely I feel it works”. Come molte delle dichiarazioni del neo eletto Presidente degli Stati Uniti, anche questa appare decisa, asciutta, apparentemente inconfutabile. L’oggetto della valutazione di Donald Trump non sono in questo caso le politiche legate all’immigrazione o all’import/export made in USA, bensì l’utilizzo della tortura come strumento per estorcere ai nemici della nazione – o presunti tali – informazioni di vitale importanza.
La scelta di parole, indubbiamente non casuale, è il motivo per cui la notizia viene trattata in questo spazio: si potrebbe infatti dibattere, probabilmente all’infinito, sull’ammissibilità morale della pratica della tortura; quello che è stato per certi versi destabilizzante è tuttavia il fatto che il Presidente della più grande e potente democrazia del mondo abbia dichiarato in mondovisione che la tortura funzioni. Per sua sfortuna diversi esperti prima di lui si sono già posti, in passato, lo stesso dilemma di natura prettamente scientifica: la conclusione a cui sono giunti, con buona pace degli analisti su cui Trump ha basato le proprie valutazioni, è che la tortura, dal punto di vista delle neuroscienze, non funziona.
Shane O’Mara, Professore di Neuroscienze Sperimentali al Trinity College di Dublino e direttore dell’Istituto di Neuroscienze presso lo stesso ateneo irlandese, ha scritto un libro (pubblicato nel 2015 dalla Harvard University Press) intitolato “Perché la tortura non funziona – Le neuroscienze dell’interrogatorio”. Nella sua opera O’Mara ha passato al vaglio delle conoscenze attualmente a disposizione della comunità scientifica i risultati di alcuni metodi di tortura autorizzati dall’amministrazione Bush (George). I documenti relativi a tale pratiche, che erano stati secretati, sono stati infatti resi pubblici ad aprile del 2009 dall’amministrazione Obama.
Nello specifico, le vessazioni a cui i prigionieri erano sottoposti erano sia di natura fisica (il waterboarding, la privazione del sonno, l’isolamento prolungato, l’obbligo a rimanere per ore in posizioni scomode e/o dolorose, insulti, minacce e percosse) sia di natura psicologica (i detenuti rimanevano nudi di fronte a inquirenti del sesso opposto, erano costretti a urinarsi addosso o addirittura bere le proprie urine, ad abbaiare, a vestire intimo femminile).
I documenti diventati pubblici non si limitavano a descrivere le tattiche utilizzate dalla CIA durante i propri interrogatori nella famigerata base di Guantánamo e in altri centri segreti di detenzione, ma li classificavano come “metodi efficaci per ottenere informazioni sensibili”. Un male necessario, insomma.
O’Mara ha effettuato una review delle più recenti ricerche in ambito psicologico e neuroscientifico per definire l’impatto della tortura sulla funzionalità cerebrale per determinare se è davvero così. L’assunto su cui si basano queste convinzioni, centrato sull’intuizione e su una sorta di “psicologia popolare”, è che la tortura “spezzi la volontà” degli interrogati. In questo modo, in assenza di un controllo volontario, la probabilità che l’interrogato faccia emergere fatti/ricordi incriminanti ne risulterà aumentata.
I dati della letteratura biomedica inerente sembrano dimostrare, tuttavia, esattamente il contrario, e ciò è riconducibile innanzitutto al meccanismo d’azione che regola i processi mnemonici. Il recall, il richiamo di un ricordo specifico, è infatti un processo di ricostruzione piuttosto che un processo di “riproduzione automatica” di un file ripescato all’interno del cervello. Anche nelle situazioni ottimali i nostri ricordi posso quindi essere alterati, fino a risultare falsi, da diversi fattori. Questo rischio aumenta vertiginosamente dalla situazione di altissimo stress a cui il cervello è sottoposto durante la tortura, sia essa di natura fisica o psicologica. Se da un lato, quindi, è facile che un prigioniero torturato confessi in tempi brevi, dall’altro è molto probabile che queste confessioni siano false (ma senza che il prigioniero stesso sappia di mentire).
Come se ciò non bastasse, O’Mara sottolinea che i deleteri effetti psicologici legati alla tortura non si limitano a interessare solo chi la subisce, bensì si osservano anche su chi la infligge. Un motivo in più, al di là delle considerazioni etiche e morali, per incentivare l’utilizzo di metodi di interrogatorio meno coercitivi (come ad esempio l’immersione in ambiente di realtà virtuale, che possa ricreare le condizioni in cui il ricordo è stato generato, e il role-playing) per estorcere informazioni a presunti criminali. Anche se, come indicano alcuni studi recenti, neanche le più innovative e brillanti tecniche di interrogatorio non sono del tutto esenti dal rischio di “contaminare” i ricordi per giungere a una confessione.
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