Donne e ricerca: alcuni dati
L'11 febbraio è stata la giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza, facciamo chiarezza con un po' di numeri.
IPAZIA – “Le donne rimangono una minoranza nel campo della ricerca scientifica”, ma “l’umanità non può permettersi di ignorare metà del suo genio creativo”. Sono parole di Irina Bokova, direttrice generale dell’UNESCO, scritte in occasione della Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza, celebratasi lo scorso 11 febbraio. Istituita durante la settantesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel dicembre del 2015, la Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza, giunta quest’anno alla sua seconda edizione, nasce con l’obiettivo di colmare il divario di genere e promuovere uguaglianza e parità di accesso in un settore cruciale come quello scientifico.
L’iniziativa fa parte dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, programma d’azione sottoscritto dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU con lo scopo di ridurre le disuguaglianze economiche, sociali e culturali che impediscono una crescita equa e omogenea del pianeta. L’uguaglianza di genere compare fra i 17 obiettivi di sviluppo inseriti nell’Agenda, non solo come diritto umano imprescindibile, ma quale fondamento necessario per un mondo pacifico, prospero e sostenibile. Garantire la piena parità di accesso e partecipazione di ragazze e donne di tutte le età a scienza, tecnologia e innovazione, in particolare, è essenziale per lo sviluppo economico globale e per il raggiungimento di tutti gli altri obiettivi dell’Agenda 2030.
L’istituzione di una nuova Giornata internazionale per le donne potrebbe apparire eccessiva, soprattutto in virtù delle tante iniziative su questo tema che negli ultimi anni sono state promosse in vari paesi del mondo, soprattutto negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. L’ONU, però, non istituisce giornate internazionali senza motivo: i dati sono impietosi e dicono chiaramente che donne e ragazze continuano a essere escluse da una piena partecipazione alla scienza ovunque nel mondo, anche nei paesi più sviluppati. Secondo uno studio del 2013, condotto dal Boston Consulting Group in 14 paesi, il divario di genere aumenta man mano che si salgono i gradini della piramide gerarchica dell’istruzione e della ricerca: le possibilità che una ragazza consegua una laurea triennale in una disciplina scientifica sono del 18 per cento, ma si riducono all’8 per cento nel caso della laurea specialistica e al 2 per cento per il dottorato di ricerca. Uno studente maschio, invece, ha una possibilità doppia di raggiungere i primi due traguardi e tripla di raggiungere il terzo.
I dati più impressionanti emergono dalla lettura dell’UNESCO Science Report: towards 2030, rapporto di oltre 800 pagine, redatto da 60 esperti, in cui vengono descritti sviluppi e tendenze e nel campo della scienza, della tecnologia e delle politiche dell’innovazione tra il 2009 e il 2015 in diverse aree del mondo. Un intero capitolo è dedicato alla descrizione e all’analisi del gender gap presente nei vari settori della scienza e dell’ingegneria; colpisce, innanzitutto, come la percentuale di donne attive nella ricerca scientifica sia spesso scollegata dall’indice di sviluppo umano del singolo paese. In Giappone le ricercatrici sono meno del 15 per cento, come in India e in Arabia Saudita. Nell’Unione Europea rappresentano il 33,1 per cento del totale, dato di poco superiore alla media mondiale (28,4 per cento), ma nettamente inferiore a quello dell’America Latina (44,3 per cento) e dei Paesi del Sud Est Europa (48,5 per cento). Le ragioni di una realtà così frastagliata e diseguale sono complesse e affondano le loro radici nella storia di ogni singolo paese. L’elevata presenza di ricercatrici nel Sud Est europeo, per esempio, è un probabile lascito dei decenni di forti investimenti in formazione paritaria da parte dei governi socialisti. Con l’eccezione della Grecia, che non a caso vanta percentuali molto più basse, tutti i paesi dell’area erano infatti parte del blocco sovietico.
A livello globale, il dato positivo è che le donne che decidono di studiare discipline scientifiche sono aumentate in proporzione più degli uomini (+5,1 per cento contro +3,3 per cento nell’Unione Europea), e questo non solo in ambiti in cui la presenza femminile è sempre stata relativamente elevata, come medicina e biologia, ma anche in discipline quali ingegneria e informatica, finora appannaggio quasi esclusivamente maschile. Ci sono stati anche progressi concreti nel riconoscimento del lavoro delle scienziate, sia a livello nazionale che internazionale; nel 2014, per esempio, la prestigiosa medaglia Fields per la matematica è stata assegnata per la prima volta a una donna, l’iraniana Maryam Mirzakhani.
Una combinazione di fattori, però, rende ancora molto difficile la crescita professionale delle donne nella scienza. Nel report emerge, per esempio, come le donne incontrino più difficoltà degli uomini nella pianificazione di una carriera nel campo della ricerca, in particolare in ambito accademico. Studentesse e dottorande sono spesso disincentivate a proseguire i loro studi, sono giudicate con maggior severità e hanno maggiori probabilità di incontrare problemi con i loro supervisori. In molti casi, poi, la prospettiva della maternità rappresenta una vera e propria barriera professionale (“maternal wall”). Nelle sue conclusioni, il rapporto dell’UNESCO indica come necessario un cambiamento di approccio: spingere le ragazze a studiare discipline scientifiche non basta, occorre lavorare per ridurre gli ostacoli alla loro crescita professionale e per impedire che – a causa di barriere più o meno evidenti – rinuncino a perseguire una carriera in questo settore. Insomma, la Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza ha anche lo scopo di ricordarci, ogni 11 febbraio, che il soffitto di vetro è ancora molto solido.
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