L’inquinamento degli oceani ha toccato il fondo
Analizzando crostacei pescati nelle fosse oceaniche sono state rilevate alte percentuali di policlorobifenili, sostanze vietate da quarant'anni.
RICERCA – Le conseguenze delle attività dell’essere umano sull’ambiente sono ovunque e si possono riscontrare negli angoli più remoti del Pianeta Terra, anche nei punti più profondi degli oceani. È quanto emerso da uno studio, condotto da un team delle Università britanniche di Aberdeen e Newcastle, pubblicato su Nature Ecology & Evolution.
I ricercatori hanno eseguito delle analisi sulla concentrazione di inquinanti organici persistenti nelle popolazioni di crostacei dell’ordine degli anfipodi, che popolano il fondale di due delle fosse oceaniche più profonde in assoluto, la Fossa delle Marianne e la Fossa delle Kermadec, entrambe nell’Oceano Pacifico. In tutti i crostacei analizzati, prelevati a profondità variabili tra i 7.000 e i 10.000 metri, sono state riscontrati livelli estremamente alti di policlorobifenili (PCB), composti inquinanti dalla tossicità simile a quella della diossina, e di polibromodifenileteri (PBDE), sostanze chimiche industriali utilizzate principalmente come ritardanti di fiamma.
Dall’introduzione nel mercato negli Anni ’30 fino a quando furono vietati negli Anni ’70, l’industria mondiale ha prodotto circa 1,3 milioni di tonnellate di policlorobifenili (PCB). Si suppone che il 65% di essi sia stoccato sulla terraferma mentre il resto giaccia sulle coste e in mare aperto. Si tratta di inquinanti che non subiscono degradazione e che possono diffondersi su grandi distanze e, una volta depostati sul fondale, entrare con facilità nella catena alimentare.
Spiegare come questi inquinanti organici siano arrivati negli abissi più profondi non è facile ma i ricercatori hanno avanzato alcune ipotesi. Una di queste, che spiegherebbe anche la differenza nella concentrazione di PCB tra i campioni prelevati nelle due Fosse, tiene in considerazione la prossimità delle regioni industrializzate del Pacifico nord-occidentale e la presenza della grande chiazza d’immondizia del Pacifico, il tristemente noto accumulo di spazzatura galleggiante.
Il ritrovamento di un’alta concentrazione di un composto che non viene più prodotto da 40 anni invita a riflettere su come gli effetti devastanti dell’agire umano sull’ambiente possano trascendere il tempo e presentarsi in luoghi che si reputava essere irraggiungibili e, quindi, incontaminati. La sfida per i ricercatori ora consiste nel determinare quali saranno le ricadute sul breve e sul lungo periodo per l’ecosistema oceanico.
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