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Quanto manca alla fine dell’AIDS?

Il nuovo programma avviato dal Sudafrica alla fine del 2016 potrebbe segnare un importante passo in avanti anche in relazione ai casi di tubercolosi HIV-correlati, ma il traguardo è ancora lontano. Il dibattito - dati alla mano - sulla rivista The Lancet.

Secondo i dati dell’OMS, su 36,7 milioni di nuovi casi di HIV nel 2015 solo il 60% è a conoscenza del proprio status. Crediti immagine: Jon Rawlinson, Flickr

APPROFONDIMENTO – Nel 2015 nel mondo una persona su 200 stava convivendo con l’HIV, ma solo il 46% delle persone infette ha ricevuto un trattamento antiretrovirale nello stesso anno. La buona notizia è che il numero di nuovi casi di HIV è diminuito sensibilmente dalla metà degli anni Novanta a oggi: nel 2000 erano 3,2 milioni i nuovi casi, nel 2015 2,1 milioni (dati UNAIDS/WHO). Inoltre, nel 2000 solo al 3% dei contagiati veniva offerta la terapia antiretrovirale (ART), mentre oggi siamo quasi alla metà dei casi. La notizia meno buona è che siamo ancora lontani dalla possibilità di eliminare questo problema in maniera definitiva, per esempio con un vaccino.

Non dobbiamo dimenticare inoltre che vi sono ancora degli scalini fra diffusione della malattia, consapevolezza da parte dei malati ed effettiva copertura dei trattamenti. Secondo quanto riporta il più recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in materia, su 36,7 milioni di nuovi casi di HIV del 2015, solo 22,2 milioni – cioè 6 persone su 10 – sarebbero effettivamente a conoscenza del proprio status, e il 46% riceverebbe la terapia antiretrovirale, che è quella che dovrebbe impedire all’HIV di trasformarsi in AIDS.

Le stesse Nazioni Unite recentemente hanno posto come slogan End AIDS 2030, sottolineando che dobbiamo puntare a prevenire 1,6 milioni di nuove infezioni e 600 000 decessi all’anno da qui al 2030, per eliminare l’AIDS come minaccia per la salute pubblica entro il 2030. Ricordiamo infatti che l’HIV è strettamente correlato anche con l’incidenza della tubercolosi: il rischio di sviluppare questa malattia è infatti circa 30 volte superiore fra i malati di HIV. Nel 2014 si sono registrati nel mondo 9,6 milioni di nuovi casi di tubercolosi, e 2,1 milioni di essi riguardavano persone sieropositive. Anche in Europa il problema non va sottovalutato: come riporta una nota di marzo sempre dell’OMS, il numero di nuovi casi di tubercolosi associata all’HIV è decisamente in aumento.

Secondo quanto riporta Max Essex della Harvard School of Public Health su un suo commento apparso sul numero di maggio di The Lancet Public Health, quello che sta avvenendo in Sudafrica è un buon esempio da seguire, anche se secondo l’autore difficilmente significherà la morte dell’AIDS in tempi così brevi. Il Sudafrica è infatti uno dei Paesi dove l’HIV si abbatte con maggiore ferocia e proprio di recente, nel settembre 2016, il Paese ha introdotto l’Expanded Treatment and Prevention (ETP) in sostituzione del Costant Effort (CE). Il cambiamento di politica nei confronti della malattia punta ad allargare il ventaglio di sieropositivi a cui deve essere offerta la terapia antiretrovirale, indipendentemente dal loro numero di cellule CD4, e include altre misure di prevenzione trasversali per ridurre le nuove infezioni a meno di 1 su 1000 persone ogni anno da qui al 2030.

Il commento di Essex si riferisce a un recente studio, pubblicato sempre su The Lancet Public Health e condotto da un gruppo di ricercatori delle università del Sudafrica, che propone una stima degli effetti del controllo dell’HIV proprio sulla tubercolosi. Il nuovo approccio ETP – mostrano gli autori – dovrebbe da un lato salvare molte più vite, e dall’altro ridurre l’impatto economico della malattia, e per questo dovrebbe rappresentare un modello che anche altri Paesi dovrebbero considerare. Gli autori hanno stimato infatti un impatto di 2,9 miliardi di dollari nel 2018, che dovrebbe ridursi a 0,9 miliardi l’anno da qui al 2050.

Si tratta di uno studio epidemiologico, condotto incrociando i dati del Joint Programme delle Nazioni Unite (UNAIDS) che coprono il periodo 1988-2013, i dati dell’OMS sulla tubercolosi dal 1980 al 2013 e quelli provenienti dal South African National AIDS Council. L’obiettivo era stimare l’andamento della prevalenza di nuovi casi di HIV nei prossimi anni, la copertura di terapie antiretrovirali e i casi notificati di tubercolosi. Quello che è emerso nel dettaglio è che riguardo all’HIV l’incidenza fra le persone con più di 15 anni in Sudafrica è passata dal 2,3% del 1996 allo 0,65% del 2016, mentre la mortalità per AIDS è passata dall’1,4% del 2006 allo 0,37% del 2016. Secondo gli autori quindi il Constant Effort, attivo appunto fino a settembre 2016, avrebbe migliorato di molto la situazione in termini di nuovi casi di HIV, mentre sarebbe stato meno efficace nel ridurre la mortalità per AIDS. Il nuovo ETP invece secondo le stime dovrebbe arrivare dove il CE non ha avuto il successo sperato.

Infine – sottolinea invece Essex nel suo commento – alcune domande rimangono ancora aperte, a partire dalle evidenze circa l’effettivo beneficio delle terapie antiretrovirali nella lotta contro la TB. In che modo poi le migrazioni complicheranno queste procedure? Quali nuovi oneri dovranno affrontare i pazienti con infezioni da HIV a lungo termine che sono state finora trattate con successo con gli antiretrovirali, di fronte a questo aumentato rischio di contrarre in aggiunta anche altre malattie croniche?

L’ottimismo pare dunque giustificato, concludono gli autori, ma gli obiettivi sia in termini sanitari sia di risparmio economico – ridurre le nuove infezioni a meno di una su 1000 persone entro il 2030 e arrivare a un impatto di 0,9 miliardi di dollari nel 2050 – dipenderanno da come il Paese riuscirà a coinvolgere la popolazione nel mettere in atto le misure preventive, e a monitorare la situazione in modo costante per realizzare azioni mirate.

@CristinaDaRold

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.