Leucemia linfatica cronica: una possibile chiave per dominarla
L'evolvere della malattia dipende da quanto è stabile il contatto fra due recettori sui linfociti B. E questo potrà significare terapie più personalizzate.
SALUTE – Quello che sappiamo da qualche decennio sulla leucemia linfatica cronica – la forma leucemica più frequente fra la popolazione adulta e anziana, con una mediana di 72 anni alla diagnosi – è che essa si origina quando i linfociti B, fra le cellule che compongono il nostro sistema immunitario, iniziano a duplicarsi in modo incontrollato. Finora però gli scienziati non avevano compreso le cause di questa proliferazione.
Uno studio pubblicato in questi giorni su Nature Communications da un gruppo di ricercatori del San Raffaele di Milano grazie al contributo di AIRC per la prima volta mette in luce un aspetto fondamentale per capire e combattere questa forma leucemica: la malattia si sviluppa perché i recettori posti sulla superficie dei linfociti B iniziano a non riconoscere più i propri simili come tali. A un certo punto questi recettori, entrando in contatto con altri recettori posti sulla superficie della stessa cellula o di una cellula vicina, non riconoscono più i propri “gemelli” come appartenenti alla stessa famiglia. Come se non vedessero più se stessi allo specchio, ma come un qualcosa di esterno, e quindi si si attivano – appunto – duplicandosi.
Si tratta di una scoperta molto importante perché permette ai ricercatori di incamminarsi verso nuovi approcci terapeutici alla malattia attraverso nuovi farmaci – in realtà anche studiando l’efficacia di farmaci già esistenti sul mercato – in grado di inibire questo falso riconoscimento fra i recettori dei linfociti B. “Un passo in avanti notevole per una malattia che attualmente trattiamo in modo poco personalizzato, con lo medesime terapie anche per forme diverse di leucemia linfatica cronica”, spiega a OggiScienza Paolo Ghia, professore presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e a capo del Programma di Ricerca Strategica sulla leucemia linfatica cronica.
Le caratteristiche principali di questa forma di leucemia sono da un lato la sua multifattorialità e dall’altro l’eterogeneità della sua manifestazione. Per multifattorialità si intende che la malattia origina attraverso molti meccanismi diversi, anche se questo descritto al San Raffaele sembra essere in comune a tutte le tipologie. Con eterogeneità si fa invece riferimento al fatto che esistono persone a cui viene diagnosticata la malattia ma che non avranno mai sintomi, aggravamenti, la cui aspettativa di vita sana sarà dunque uguale a quella di una persona senza malattia. In altri casi invece la malattia si presenta subito in modo aggressivo. Dal punto di vista dei recettori, nel complesso esistono vari sottotipi di leucemia linfatica cronica, ognuno dei quali si differenzia dagli altri per il modo in cui i recettori interagiscono fra loro, non riconoscendosi più come parte dello stesso organismo.
Si comprende dunque perché sia importantissimo studiare una a una queste forme, per garantire un’adeguata terapia. “Qui si inserisce la seconda scoperta che è emersa durante la nostra ricerca”, spiega Massimo Degano, biochimico coautore dello studio. “Abbiamo osservato che l’evolvere della malattia dipende da quanto è stabile il contatto fra due recettori. Se il contatto fra di essi è stabile, la malattia procederà più lentamente, mentre se i recettori giocano a ping pong, toccandosi e poi lasciandosi frequentemente, allora la malattia procederà in modo più aggressivo”.
“Si tratta di un aspetto assai rilevante perché significa in qualche modo che possiamo prevedere tramite un’analisi del sangue (basta quella per esaminare i linfociti B) che tipologia di prognosi avrà il paziente, evitando controlli troppo frequenti o trattamenti inappropriati”, precisa Ghia.
Al momento i ricercatori hanno esaminato solo alcuni dei sottotipi di leucemia linfatica cronica, e stanno procedendo a studiare tutte le varie tipologie di malattia. Fondamentale per riuscire in questo compito complesso è stato l’uso della cristallografia a raggi X, una tecnica particolare di microscopia che localizza nello spazio gli atomi di una molecola, di fatto individuandone la forma. La procedura, di cui è esperto il dottor Degano, ha permesso per la prima volta di capire come si posizionano i recettori sulla superficie dei linfociti B, e come avviene la loro interazione, la cui stabilità come abbiamo visto si associa all’evolvere della malattia.
“La scoperta è importante non solo perché offre un modello unico in grado di spiegare una grande varietà di esiti clinici, ma anche perché identifica nuovi potenziali target terapeutici”, conclude Ghia. “I farmaci attualmente disponibili agiscono su ciò che avviene in seguito all’attivazione dei recettori, anche perché non era chiaro il meccanismo con cui questa avvenisse. Ora possiamo pensare di colpire direttamente i recettori e bloccare in modo specifico il meccanismo con cui producono questo cortocircuito”.
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