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Deforestazione locale, piaga globale

La perdita delle foreste pluviali ha conseguenze che riguardano l'intero pianeta, e influenza le precipitazioni, il ciclo del carbonio e il riscaldamento globale.

Ogni anno circa 7 milioni di ettari di foresta tropicale sono distrutti, per far posto all’agricoltura, allo sfruttamento del suolo o alle infrastrutture. Fotografia di Ramos Keith, U.S. Fish and Wildlife Service, Public Domain

SPECIALE GIUGNO – Alberi alti fino a 80 metri, un sottobosco buio e colonizzato da un fitto intreccio di liane e piante pioniere, precipitazioni abbondanti e umidità spesso alle stelle. Sono queste le peculiarità che caratterizzano le foreste pluviali, una cintura verde che si estende da un Tropico all’altro per tutto il globo, toccando Asia, Australia, Africa, Sud America, America Centrale, Messico meridionale oltre a numerose isole del Pacifico, e dove trova dimora la metà della biodiversità globale. Una piccola porzione di Terra, circa il 7% delle terre emerse, che non contiene solo un tesoro di specie viventi ma che ha anche effetti notevoli sul clima mondiale, sul commercio e sullo sviluppo di nuovi farmaci, tanto da essere considerata la più grande farmacia a cielo aperto del Pianeta. Eppure, la foresta pluviale è in pericolo. A minacciarla è un inesorabile processo di deforestazione che, se continuerà con la velocità attuale, porterà alla definitiva scomparsa delle foreste pluviali entro i prossimi 100 anni. A farne le spese non sono solo le popolazioni locali ma gli effetti, assicurano gli studi, saranno globali.

Quanto velocemente scompare la foresta pluviale?

La Food and Agricolture Organization (FAO) monitora lo stato di salute delle foreste dagli anni Quaranta del secolo scorso. Secondo i più recenti dati FAO, sono 7 milioni gli ettari di foresta tropicale andati persi ogni anno nella fascia tropicale tra il 2000 e il 2010. Il 40% di questi sono stati sacrificati per far posto all’agricoltura su larga scala, il 33% per l’agricoltura locale, il 20% per infrastrutture e edilizia urbana e il 7% per l’estrazione dal sottosuolo.

Un esempio su tutti è la foresta pluviale dell’Amazzonia, che si estende tra Brasile, Venezuela, Colombia, Perù e Bolivia, considerata da decenni ormai la “grande malata” di deforestazione. La sua estensione, infatti, si è ridotta di un terzo, passando dai 6 milioni ai 4 milioni di chilometri quadrati per fare posto a monocolture, strade e pascoli. Proprio il tema della deforestazione amazzonica è stato al centro di un recente battibecco diplomatico tra Norvegia e Brasile, colpevole, secondo lo stato scandinavo, di non fare abbastanza per fermare la velocità di scomparsa della foresta pluviale, aumentata del 29% nel solo 2016. La Norvegia è uno dei principali finanziatori del fondo per la difesa della foresta amazzonica creato dal Brasile dal 2008, ma ha chiaramente palesato l’ipotesi di azzerare il suo contributo se il governo carioca non adotterà serie misure in merito.

Se da un lato i dati FAO sullo stato di salute delle foreste provengono da statistiche fornite dalle singole nazioni, conferme sull’incredibile velocità alla quale procede la deforestazione vengono anche dallo spazio. Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, infatti, la serie di satelliti Landsat lanciati dalla NASA hanno fornito immagini dettagliate dall’alto delle foreste pluviali, utilizzate poi in diversi studi. Tra i più completi e prolungati nel tempo c’è stato il Landsat Pathfinder Humid Tropical Deforestation Project, un lavoro di gruppo che ha coinvolto la NASA, l’Università del Maryland e l’Università del New Hampshire con il fine di creare le mappe della deforestazione in Amazzonia, Africa Centrale e Asia meridionale dal 1970 fino agli anni Novanta. Nel 2013 uno studio pubblicato su Science ha combinato 550 000 immagini scattate da Landsat7 per quantificare la perdita globale di foreste nel mondo: 2,3 milioni di chilometri quadrati tra il 2000 e il 2012, il 32% dei quali sottratti alle foreste tropicali.

Per colpa di chi? 

Secondo i dati FAO, è per far spazio ad agricoltura e pastorizia che viene distrutta la maggior parte delle foreste pluviali. A queste vanno sommate l’estrazione del legno e di altri combustibili e la costruzione di strade. Difficilmente si può individuare una singola causa per il processo di deforestazione, in quanto si tratta spesso di una concatenazione di fattori che si susseguono.

Il Dipartimento di Ecologia del Carnegie Institution dell’Università di Stanford, per esempio, ha dimostrato come le strade aperte dalle grandi industrie del legno portino a ondate di sfruttamenti successivi. In uno studio apparso su PNAS, i ricercatori hanno dimostrato che il 16% di una foresta sottoposta a taglio selettivo (cioè il taglio di poche e selezionate specie arboree) viene distrutta nel giro di un anno e un ulteriore 32% nel giro di 4 anni, fino alla completa riconversione agricola. Inoltre, porzioni di foreste comprese in un raggio di 25 km da una strada hanno una probabilità quattro volte superiore di essere completamente distrutte.

Di recente, un nuovo inquietante fenomeno si sta imponendo come una delle principali cause di deforestazione in alcune regioni dell’America Centrali: la “narco-deforestation“. Un recentissimo studio pubblicato su Environmental Research Letters stima l’entità della deforestazione causata dal narcotraffico con numeri tutt’altro che esigui. Più del 30% della deforestazione attualmente in corso in Nicaragua, Guatemala e Honduras sarebbe collegata in qualche modo al mercato della cocaina, non solo per la sua coltivazione ma anche per le attività indirette a esse collegate, come la costruzione di insediamenti industriali nascosti nella foresta per la sua lavorazione e attività industriali avviate in questi territori vergini per riciclare il denaro proveniente dai traffici illeciti.

Effetti globali di azioni locali

La perdita delle foreste pluviali, sostengono gli studi, è una piaga che non affligge solo la biodiversità locale ma ha effetti sulle precipitazioni, sul ciclo del carbonio e anche sul riscaldamento globale. Il 30% delle precipitazioni che cadono sulle foreste tropicali deriva da acqua che è evaporata dalle foreste stesse. Questo processo di evaporazione, oltre ad alimentare il ciclo dell’acqua, raffredda la superficie terrestre. Modelli computazionali hanno dimostrato che, se le foreste pluviali lasciassero definitivamente spazio a pascoli e campi coltivati, l’intera zona dei Tropici andrebbe incontro ad un processo di desertificazione, con climi più caldi e secchi. Anche le precipitazioni in zone al di fuori della cintura tropicale potrebbero risentirne.

Ma c’è di più. Negli alberi della sola Amazzonia, secondo le stime, sarebbe intrappolato tanto carbonio quanto ne potrebbe essere prodotto in dieci anni di attività umane. Quando la foresta pluviale viene distrutta, solitamente appiccando incendi, questa enorme quantità di carbonio viene immessa nell’atmosfera, con gli ormai noti effetti sul clima e sul riscaldamento globale. Anche le attività umane di agricoltura e pastorizia avviate nei terreni sottratti alle foreste incidono in questo bilancio, rendendo quello della deforestazione un peso notevole nella bilancia del clima.

Tutti colpevoli

Nonostante si trovi piuttosto lontana dalle aree di foresta pluviale interessate dal disboscamento, l’Europa è decisamente coinvolta in questo fenomeno. Secondo un rapporto della Commissione Europea, infatti, l’Europa è leader mondiale nella deforestazione, essendo stata responsabile della perdita di almeno 9 milioni di ettari di foreste – una superficie grande come l’Irlanda – tra il 1990 e il 2008. Sotto accusa è la richiesta sempre crescente da parte del vecchio continente di biomasse, biocarburanti e prodotti alimentari, produzioni che richiedono la riconversione a terreni agricoli di ampie aree di foreste pluviali. Alla luce di questo, i ministri dell’ambiente dei Paesi dell’Unione Europea si sono impegnati a dimezzare la deforestazione tropicale entro il 2020.

Basterà? Probabilmente solo a lavare la coscienza della società europea, in quanto la deforestazione è un fenomeno che intreccia la strade di grandi industrie mondiali, di commerci estesi su scala globale, di politiche non sempre attente all’ambiente, di traffici loschi, di necessità di sopravvivenza delle comunità locali. Uno studio pubblicato su Conservation Biology oltre un decennio fa fornisce un punto di vista interessante sulla conservazione delle foreste. Usando immagini satellitari e dati raccolti al suolo, un gruppo di scienziati ha dimostrato che in Amazzonia la deforestazione procede decisamente più lentamente nelle aree abitate dalle popolazioni indigene piuttosto che nei parchi o nelle aree protette. Forse la chiave per salvare quel poco di questi scrigni di biodiversità potrebbe essere proprio qui, nel rispetto e nell’esperienza acquisita nel corso dei secoli da quelle persone che dalle foreste pluviali da sempre ricavano riparo, dimora, medicine e sussistenza.

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