IPAZIA

Cecilia Payne Gaposchkin, l’astrofisica che ha scoperto come sono fatte le stelle

Le sue scoperte sulla composizione delle stelle hanno messo in discussione le conoscenze della comunità scientifica del tempo, e sono state a lungo ignorate dagli altri astrofisici.

Cecilia Helena Payne Gaposchkin (1900-1979), astrofisica presso l’Harvard College Observatory, ha dato un contributo fondamentale allo studio della composizione delle stelle. Crediti immagine: Smithsonian Institution

IPAZIA – “Siamo materia stellare che medita sulle stelle”, diceva il grande astrofisico e divulgatore scientifico Carl Sagan. Tutto ciò che esiste in natura, compresi gli atomi che compongono il nostro corpo, è il risultato delle reazioni termonucleari innescate all’interno delle stelle dall’idrogeno, elemento che da solo costituisce oltre il 70% della massa stellare. Oggi questo è un dato acquisito, quasi ovvio, ma una volta non era così. Gli astrofisici di inizio Novecento credevano che le stelle fossero composte principalmente dagli stessi metalli che si trovano sul nostro pianeta, in particolare il ferro, elemento principale del nucleo terrestre. A scoprire che le stelle sono fatte soprattutto di idrogeno, andando contro l’opinione della comunità scientifica del tempo, è stata – negli anni Venti del secolo scorso – una giovane astrofisica inglese. Il suo nome era Cecilia Payne Gaposchkin.

Cecilia Payne Gaposchkin nasce come Cecilia Helena Payne a Wendover, un paese a pochi chilometri da Londra, nel 1900. Frequenta con ottimi risultati la St Paul’s Girls’ School e ottiene una borsa di studio che le consente di iscriversi al Newnham College, istituto per sole donne dell’Università di Cambridge, dove frequenta i corsi di chimica, fisica e botanica. Nel 1919 Sir Arthur Eddington, importante astrofisico britannico, espone i risultati delle misurazioni effettuate durante un’eclissi solare nell’isola di Príncipe, al largo delle coste occidentali africane, grazie ai quali è in grado di dimostrare la validità della teoria della relatività generale di Albert Einstein. Cecilia, fino a quel momento interessata soprattutto alle scienze naturali, assiste alla conferenza e resta letteralmente folgorata. Capisce di voler diventare un’astrofisica. Completa i suoi studi nel 1922, ma a quell’epoca Cambridge non riconosce la laurea alle donne. Diventare una ricercatrice nel Regno Unito è impossibile, l’unica prospettiva sembra essere l’insegnamento. Quello stesso anno, però, si reca in visita a Cambridge Harlow Shapley, direttore dell’Osservatorio dell’Università di Harvard; presso il Radcliffe College, sezione femminile dell’università americana, è da poco attiva una borsa di studio aperta alle donne. Cecilia Payne riesce a ottenere la borsa e nel 1923 si trasferisce negli Stati Uniti. Al Radcliffe College non esiste un programma di dottorato in astronomia, ma Shapley convince la giovane inglese a scrivere egualmente la sua tesi. Payne completa il suo lavoro nel 1925, diventando così la prima donna a conseguire un dottorato in astronomia ad Harvard.

Nella sua tesi, intitolata Stellar Atmospheres, la scienziata inglese mette in discussione le conoscenze della comunità scientifica sulla composizione delle stelle. Attraverso lo studio e la comparazione di numerosi spettri stellari, ovvero i fasci di luce provenienti dalle stelle analizzati nelle loro diverse lunghezze d’onda, giunge alla conclusione che il componente principale del Sole e delle altre stelle non è il ferro, ma l’idrogeno, che assieme all’elio costituisce oltre il 98% della massa stellare. “La più brillante tesi di dottorato in astronomia mai scritta”, così l’astronomo Otto Struve definirà negli anni Sessanta il lavoro di Payne. Nel 1925, però, quasi nessuno prende sul serio i suoi risultati, tanto che l’astrofisico Henry Norris Russell – a cui Shapley aveva chiesto di revisionare il testo – riesce a convincere la giovane a modificare la parte più rivoluzionaria del suo lavoro e a definire la scoperta sull’idrogeno come “probabilmente non reale”. Quattro anni più tardi, Russell arriverà per vie diverse alle stesse conclusioni della scienziata inglese e la citerà nella sua ricerca, ma per molto tempo sarà il solo a essere accreditato come autore della scoperta.

Cecilia Payne continua a studiare la composizione delle stelle anche nei decenni successivi. Negli anni Trenta, con l’obiettivo di comprendere la struttura della Via Lattea, si concentra soprattutto sullo studio delle stelle ad alta luminosità. Nel 1933 torna in Europa per visitare alcuni osservatori; in Germania incontra l’astronomo russo Sergej Gaposchkin e lo aiuta a ottenere un visto americano e una posizione presso l’Osservatorio di Harvard. Si sposeranno l’anno successivo e condurranno insieme la maggior parte delle loro ricerche. In particolare, eseguiranno milioni di osservazioni sulle stelle variabili – astri la cui luminosità apparente cambia nel tempo – presenti all’interno della nostra galassia. Nel 1956, trentun anni dopo la sua scoperta, la scienziata inglese ottiene finalmente una posizione da professore ordinario ad Harvard e viene nominata presidente del dipartimento di astronomia. Prima di lei nessuna donna aveva mai ottenuto un incarico così importante all’interno della prestigiosa università americana.

“La vera ricompensa per un giovane scienziato è l’emozione che prova nell’essere la prima persona nella storia del mondo a vedere o capire qualcosa di nuovo. Niente può essere paragonato a questa esperienza”. Cecilia Payne Gaposchkin pronuncerà queste parole nel 1976, tre anni prima di morire, quando riceverà l’Henry Norris Russell Lectureship, il più alto riconoscimento della Società Astronomica Americana.

Leggi anche: Eva Crane, la fisica che amava le api

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Simone Petralia
Giornalista freelance. Amo attraversare generi, discipline e ambiti del pensiero – dalla scienza alla fantascienza, dalla paleontologia ai gender studies, dalla cartografia all’ermeneutica – alla ricerca di punti di contatto e contaminazioni. Ho scritto e scrivo per Vice Italia, Scienza in Rete, Micron e altre testate. Per OggiScienza curo Ipazia, rubrica in cui affronto il tema dell'uguaglianza di genere in ambito scientifico attraverso le storie di scienziate del passato e del presente.