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Un nuovo interruttore per l’artrite reumatoide

Per ora risultati sui topi, ma una volta confermata questa scoperta anche sull'uomo si aprirebbe la strada alla produzione di inibitori per bloccare la malattia.

Radiografia di una mano affetta da artrite reumatoide. Crediti immagine: Wikimedia Commons

RICERCA – L’artrite reumatoide è una malattia cronica che clinicamente si presenta come una sindrome, vale a dire una artrite di cui esistono gruppi di pazienti con gli stessi sintomi ma con patogenesi diversa. La malattia è provocata in tutti i pazienti da un’orchestra di gruppi di cellule del sistema immunitario, ognuna delle quali è responsabile di una piccola parte della infiammazione cellulare che colpisce le articolazioni e gli organi interni. A seconda della popolazione cellulare che prevale sulle altre, abbiamo delle manifestazioni diverse della malattia, cioè diversi sottogruppi di malati.

Per questa ragione è importante cercare quali possono essere dei validi interruttori per tutti i tipi di cellule coinvolte, in modo da controllare l’intera orchestra.

In questo scenario si inserisce la recente scoperta effettuata da un team di ricercatori dell’Università Cattolica di Roma e del Policlinico Gemelli, in collaborazione con l’Università di Glasgow e pubblicata su Nature Communication. Nel paper si trovano sia dei risultati precedenti condotti sull’uomo sia una serie di modelli sperimentali condotti sui topi, che si sono rivelati molto promettenti per individuare in futuro anche sull’uomo un validi interruttori per bloccare la malattia quando prevale una certa popolazione cellulare sulle altre. I ricercatori sono riusciti a osservare che nei tessuti sinoviali (le membrane che rivestono le articolazioni) le cellule dendritiche presentavano una iper-espressione di una certa molecola di RNA non codificante (miR34a). Hanno poi dimostrato che, nei topi che avevano da poco sviluppato l’artrite, silenziando miR34a e mantenendo attivo il suo interruttore naturale (AXL), la malattia risultava definitivamente bloccata.

L’interruttore in questione è una piccola molecola – miR34a – che accende le cellule più pericolose in questa patologia, le cellule dendritiche, responsabili della risposta autoimmune. La base della malattia è infatti una reazione autoimmunitaria durante la quale cellule di difesa del nostro sistema immunitario – i linfociti T e linfociti B – normalmente deputati a riconoscere ed eliminare agenti infettivi, sbagliano e finiscono per riconoscere come estranee delle molecole che invece appartengono al nostro stesso organismo, generando un’infiammazione distruttiva diretta contro le articolazioni e gli organi interni del paziente e producendo anticorpi patologici, i cosiddetti autoanticorpi.

“Già nel 2009 avevamo pubblicato una ricerca sulla rivista Human Immunology che descriveva l’importanza delle cellule dendritiche nella modulazione della risposta immunitaria – racconta il Prof. Gianfranco Ferraccioli, Ordinario di Reumatologia, uno degli autori dello studio – ma solo ora siamo riusciti a comprendere l’asse molecolare che la determina, che ha alla base un fattore epigenetico, cioè una molecola di RNA non codificante (miR 34a) e un interruttore AXL, capace di spegnere le cellule dendritiche attivate da miR34a. Le cellule dendritiche posseggono un’alta espressione di 34a e una bassa espressione di AXL – continua Ferraccioli – e quindi abbiamo pensato di costruire un modello sperimentale che silenziasse miR34a, mantenendo invece intatta l’espressione di AXL. In questo modo abbiamo potuto osservare ciò che ci ha colpito e cioè che così facendo nei topi la malattia risultava bloccata.”

“Dal punto di vista traslazionale si tratta di una scoperta molto importante perché – una volta confermata questa scoperta anche sull’uomo – si potrebbero sintetizzare degli inibitori in laboratorio che blocchino miR34a” conclude l’autore.

Non è tuttavia la prima scoperta del team romano riguardo possibili interruttori per l’artrite reumatoide. In un lavoro precedente, pubblicato lo scorso anno sempre su Nature Communications, lo stesso gruppo aveva infatti scoperto un “grilletto molecolare” nelle cellule B dell’artrite reumatoide, che amplifica la sintesi di anticorpi patogeni nell’organismo dei pazienti e i processi infiammatori patologici.
“Stiamo completando piano piano il puzzle – conclude Ferraccioli. “Solo mettendo in equilibrio tutte le cellule coinvolte, fra linfociti B, T, macrofagi e cellule dendritiche, potremmo capire per ogni singolo paziente che si presenta con una diagnosi fresca iniziale di artrite reumatoide quale gruppo cellulare prevale e come agire al meglio per spegnere quella popolazione cellulare e permettere al suo sistema immunitario di ritornare a funzionare normalmente.”

@CristinaDaRold

Leggi anche: Artrite reumatoide: passi in avanti nello studio della malattia

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.