AMBIENTE

La sesta estinzione di massa è già iniziata

E stavolta l'uomo ha le sue colpe: il 50 percento delle specie che condividevano la Terra con noi si sono già estinte e molte altre rischiano di fare la stessa fine

Quasi il 70% degli elefanti di foresta africani è scomparso in poco più di 10 anni e ai 400mila restanti – se si continua a decimarli con lo stesso andamento – resta un ventennio soltanto. Crediti immagine: Pixabay

AMBIENTE – C’è un’estinzione di massa in corso: la sesta. Dopo quella dell’Ordoviciano (450 milioni di anni fa), del Devoniano superiore (375), del Permiano (250), del Triassico (200) e del Cretaceo (66). Un vero e proprio “sterminio biologico”. A usare questa forte espressione sono i ricercatori delle Università di Stanford e di Città del Messico, autori dello studio pubblicato su Pnas.

Firmato da Gerardo Ceballos, Paul R. Ehrlich e Rodolfo Dirzob, il lavoro è frutto di un’ampia analisi basata su un campione di 27.600 tra mammiferi, uccelli, rettili e anfibi, cioè quasi la metà di tutti i vertebrati noti e censiti dall’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN). Di 8.851 specie – ovvero il 32% – si sta riducendo sia il numero di esemplari che il relativo habitat. Un risultato sorprendente e preoccupante allo stesso tempo, ben più alto del previsto, riguardante persino gli animali ritenuti a basso rischio (come la rondine comune o il giaguaro).

In sostanza, il 50 percento delle specie che condividevano la Terra con l’uomo si sono già estinte e molte altre rischiano di fare la stessa fine. Il ritmo è stato di due in meno all’anno nel corso del Novecento, mentre nel corso dei prossimi secoli i 3/4 del totale potrebbero svanire. Basti pensare al leone, che dal 1993 a oggi ha visto un calo della popolazione pari al 43%.

Gli scienziati si sono poi focalizzati su 177 tipi di mammiferi di cui si conoscono dati dettagliati, così da esaminarne i tassi di estinzione nell’arco di tempo che va dal 1900 al 2015. Di questi animali, tutti hanno perduto almeno il 30% dei territori occupati, mentre oltre il 40% di essi ha subito un forte declino della popolazione (superiore all’80%). Particolarmente colpiti quelli di sud e sud-est asiatico: qui tutte le grandi specie analizzate hanno perso più dell’80% del loro habitat.

Cifre impressionanti, che smentiscono la sbagliata percezione collettiva del fenomeno, secondo la quale non vi sarebbe una minaccia imminente per la fauna, ma solo una incipiente e lenta perdita di biodiversità. L’equipe invece punta il dito verso la “massiccia erosione antropogenica” di quest’ultima e “dei servizi ecosistemici necessari per la civiltà”.

La velocità del fenomeno è infatti di circa cento volte maggiore a quella che avrebbe in natura, accelerata da frammentazione e distruzione degli habitat (dovuti all’aumento della popolazione, con sempre più terre dedicate a colture e pascoli), bracconaggio (il cui mercato nero è in crescita) e cambiamenti climatici (favoriti da immissioni che contribuiscono all’effetto serra).

Tale allarme è corroborato da quello recentemente lanciato dal WWF, secondo cui dal 1970 al 2012 si è perso il 58% della fauna dei vertebrati. Ad esempio: quasi il 70% degli elefanti di foresta africani è scomparso in poco più di 10 anni e ai 400mila restanti – se si continuasse a decimarli con lo stesso andamento – resterebbe un ventennio soltanto.

Quanto all’Italia, oltre il 50% degli squali mediterranei sono a rischio, dell’orso marsicano restano poco più di 50 esemplari sugli Appennini, mentre sulle Alpi si conta una decina di coppie di gipeti. Segnali altrettanto scoraggianti.

Credere che tutto ciò non intacchi la vita dell’uomo sarebbe un errore clamoroso, sottolineano gli autori dello studio in un comunicato ufficiale, poiché le conseguenze si diffonderebbero a cascata. Tali perdite di biodiversità e di popolazioni animali ci privano sia di servizi ecosistemici cruciali (come l’impollinazione delle colture da parte delle api, il controllo dei parassiti e la depurazione delle acque delle zone umide), che di intricate reti ecologiche (che coinvolgono anche piante e microrganismi) portando a ecosistemi e a pool genetici meno resilienti, i quali potrebbero determinare la sopravvivenza delle specie in un contesto globale in rapida evoluzione.

Attualmente, per limitare i danni si dovrebbe intervenire sui fattori fondamentali dell’estinzione: sovrappopolazione e consumo eccessivo. Così da prendere finalmente le distanze – concludono gli autori – dalla “finzione che la crescita infinita possa avvenire su un pianeta finito”. Ecco perché parlare di estinzione di massa – la più grande dopo quella dei dinosauri – non è un’esagerazione.

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