SPECIALE LUGLIO – Gli oceani ricoprono il 70% della superficie della Terra, hanno in media una profondità di 4.000 metri e contengono 1,3 miliardi di Km2 di acqua (il 97% della quantità totale presente sul pianeta). Ognuno dei sette miliardi di abitanti della Terra avrebbe a disposizione un quinto di un chilometro cubo di acqua, una quantità in grado di produrre metà dell’ossigeno e tutto il pesce che ciascuno di noi consuma in un anno. Se entro il 2050 sulla Terra ci saranno dieci miliardi di persone, le stesse risorse dovrebbero essere garantite da una porzione ridotta di oceano: un ottavo di chilometro cubo.
L’oceano ospita una grande biodiversità di animali, piante, alghe e microorganismi, ma allo stesso tempo raccoglie liquami, rifiuti, fuoriuscite di petrolio e scarichi industriali. L’intervento dell’uomo agisce infatti su questo ecosistema, sfruttando consapevolmente le risorse, rilasciando rifiuti e contribuendo ad alterare dei complessi meccanismi in maniera a volte inconsapevole (per esempio, avendo contribuito al processo di acidificazione degli oceani legato all’aumento di anidride carbonica).
Un recente rapporto dell’ONU dal titolo “First World Ocean Assessment” ha individuato dieci temi principali che richiedono attenzione. Se il cambiamento climatico rappresenta un pericolo per la biodiversità, come vedremo in dettaglio più avanti, anche lo sfruttamento di risorse da parte dell’uomo sta causando grandi cambiamenti nell’ecosistema. La pesca eccessiva, per esempio, rende alcune specie meno produttive perché sottrae all’ambiente proprio quei pesci che producono il maggior numero di uova. Al centro di questo sfruttamento vi sono in particolare gli hotspot di biodiversità, dai quali l’uomo cerca di trarre i maggiori vantaggi economici e sociali. L’uso eccessivo non si limita alla pesca: attraverso il trasporto navale, l’estrazione di idrocarburi e la produzione di energia offshore, l’uomo si è appropriato di un sempre maggiore spazio, soprattutto nelle aree costiere. Allo sfruttamento diretto, si sommano poi i problemi legati alla presenza di rifiuti ed eccesso di nutrienti. Gli scarichi industriali e agricoli, i liquami, le plastiche contribuiscono a rilasciare nell’oceano grandi quantità di detriti, con conseguenze dannose per le specie marine e per le attività socio-economiche di molte aree.
Gli oceani e il cambiamento climatico
Molte caratteristiche degli oceani stanno subendo delle variazioni in seguito al cambiamento climatico. Il Quinto rapporto dell’IPCC ha confermato l’aumento della temperatura superficiale del mare partire dalla fine del XIX secolo. Anche il livello dell’oceano è globalmente salito: nelle ultime due decadi, si stima che sia aumentato ogni anno di 3,2 mm. Secondo quanto predetto dall’IPCC, nel 2100 un aumento di temperatura di 4°C porterebbe a un aumento del livello del mare pari a quasi un metro rispetto al livello del 1980-1999. Con l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, anche il mare assorbe una quantità sempre maggiore di questo gas, che viene trasformato in acido carbonico. Una delle conseguenze dell’acidificazione degli oceani è la diminuzione del livello di carbonato di calcio disciolto nell’acqua e, di conseguenza, la diminuzione degli ioni carbonato utilizzati per la formazione di gusci e scheletri di alcune specie marine. Un altro cambiamento legato al clima è la variazione della salinità, la quale dipende dall’equilibrio tra l’apporto di acqua dolce attraverso i fiumi, le piogge e l’evaporazione. Le variazioni osservate suggeriscono un accentuarsi sempre maggiore delle differenze tra le regioni a maggiore e a minore salinità: la conseguenza è un cambiamento nelle correnti e nella circolazione delle acque e un effetto diretto sulla vita delle piante e degli animali, attraverso la trasformazione dell’ambiente in cui vivono.
Quali conseguenze per la biodiversità?
Si stima che fino al 60% della biomassa presente negli oceani potrebbe essere influenzata dal cambiamento climatico, con la conseguente distruzione di molti ecosistemi esistenti. Alcuni studi che riguardano le specie con marcate preferenze per alcune temperature, come il tonnetto striato e il tonno rosso, predicono, ad esempio, variazioni nel numero e nella produttività. Nell’Atlantico nord-occidentale, i cambiamenti legati alla pesca eccessiva e quelli dovuti al cambiamento climatico hanno determinato una variazione nella composizione delle specie: un ecosistema che era dominato dai merluzzi è ora dominato dai crostacei.
Gli ecosistemi ricoperti da ghiaccio che si trovano alle alte latitudini ospitano una biodiversità significativa, con specie che si sono adattate a condizioni di freddo estremo e grande variabilità climatica. Le alghe del ghiaccio contribuiscono per più del 50% alla produzione primaria della regione artica: con lo scioglimento dei ghiacci, questa produttività potrebbe diminuire. L’aumento di temperatura dello strato superiore dell’oceano rappresenta una sfida anche per le comunità di fitoplancton. Si pensa che nei prossimi anni questo potrebbe avere delle conseguenze importanti per il ciclo dei nutrienti. A una maggiore temperatura, infatti, i microorganismi diazotrofi potrebbero espandersi e ciò potrebbe portare, entro il 2100, a un aumento della fissazione dell’azoto pari al 35-65%. Gli effetti del cambiamento climatico si manifestano anche sui pesci e, sebbene le conseguenze non siano uniformi, si osservano variazioni nel tasso metabolico e nella produttività di alcune specie. Le alghe che vivono alle basse temperature sono particolarmente sensibili alle variazioni. In Europa si è assistito alla scomparsa delle laminarie, mentre in varie regioni (incluso il Nord Europa, l’Africa meridionale e l’Australia meridionale) è stato osservato un cambiamento nella distribuzione delle alghe, con le specie tolleranti alle alte temperature che hanno rimpiazzato le meno tolleranti. In presenza di temperature più elevate, i coralli vanno incontro allo sbiancamento, perché perdono l’alga simbionte che fornisce al corallo la sua colorazione, oltre a una parte dei nutrienti. È sufficiente un aumento di 1-2°C per indurre lo sbiancamento. Dati scientifici e modelli di predizione stimano che la maggior parte delle barriere coralline tropicali e subtropicali subirà lo sbiancamento entro il 2050.
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