Brucare contro il cambiamento climatico
Mangiando le piante più alte, oltre a fertilizzare il terreno, renne ed erbivori come arvicole e lemming "fanno spazio" per la crescita di altre specie vegetali. Contribuendo a contrastare gli effetti di un clima che cambia
AMBIENTE – Il cambiamento climatico è letteralmente sulla bocca di tutti, o meglio, sulle pagine di tutti i giornali. Cosa vi viene in mente quando pensate al riscaldamento globale? Probabilmente l’aumento del livello degli oceani, le barriere coralline sbiancate, il clima imprevedibile. Un’associazione meno immediata? Il fatto che a combattere il clima che cambia contribuiscono le funzioni più inaspettate, come il brucare.
Secondo uno studio dell’università svedese di Umeå e della Oulu University finlandese, la dieta di animali erbivori come le renne, i lemming e le arvicole, piccoli roditori della stessa famiglia dei criceti, può contribuire a proteggere la biodiversità in un clima che cambia, prevenendo la perdita di specie vegetali più piccole e a crescita lenta, oltre a fertilizzare il terreno.
In base alle attuali previsioni, infatti, anche la biodiversità degli ambienti di tundra è a rischio a causa dell’aumento delle temperature: si tratta di habitat con inverni rigidi ed estati fresche, battuti da venti piuttosto forti e con scarse precipitazioni (intorno ai 20 centimetri di pioggia l’anno).
Su Nature Communications i ricercatori, guidati da Elina Kaarlejärvi, spiegano che specie come le renne si nutrono delle piante più alte e con foglie larghe: in questo modo rimuovono la “coperta” dalla tundra e aumentano la disponibilità di luce verso gli strati sottostanti, dove possono germinare e crescere altre specie. Un ruolo ecologico estremamente importante e noto: le migrazioni delle mandrie di renne possono coprire fino a 5 000 chilometri e al loro passaggio il paesaggio cambia radicalmente.
I ricercatori hanno fatto un esperimento di riscaldamento controllato a Kilpisjärvi, in Finlandia: hanno allestito delle piccole serre nelle quali hanno aumentato le temperature estive di 1-2° C e confrontato la situazione delle piante all’interno quando erano presenti o meno animali come le renne e i roditori a brucare.
“Abbiamo scoperto che il riscaldamento ha aumentato il numero di specie nelle zone che venivano brucate, perché permetteva alle piccole piante della tundra di spuntare e crescere. Ma quando abbiamo rinchiuso renne, arvicole e lemming la vegetazione si è fatta più densa e la disponibilità di luce era limitata. Il risultato è stato che molte piccole specie vegetali a crescita lenta sono andate perdure”, dice Kaarlejärvi in un comunicato.
La battaglia renne vs cambiamento climatico non è affatto nuova e gli ecologi lo sanno bene. Meno di un anno fa un altro studio ha mostrato che l’azione delle renne sulla tundra artica aumenta la capacità del suolo di riflettere le radiazioni solari (albedo) e riduce allo stesso tempo l’assorbimento. Nelle zone maggiormente frequentate – e brucate – dagli ungulati questo effetto è ancora più evidente. Quando d’estate di ghiacciato resta solo il permafrost e la superficie è ricoperta da arbusti, al contrario, viene assorbita una quantità maggiore di energia solare. Il che si traduce in… riscaldamento.
Secondo Mariska te Beest, autrice dello studio e ricercatrice alla Umeå University come Kaarlejärvi, l’azione delle renne sul paesaggio (e indirettamente sul cambiamento climatico) è tale da avere rilevanza regionale. “I nostri risultati mostrano che le renne hanno un potenziale effetto raffreddante sul clima”, spiegava te Beest in un comunicato, “modificando l’albedo durante l’estate”.
Le renne come climatizzatore del pianeta?
È più facile a dirsi che a farsi: quando non brucano o trainano la slitta di Babbo Natale, anche loro devono vedersela con le condizioni di un pianeta che cambia. Non solo in termini climatici, ma dell’invasione umana che divora chilometro dopo chilometro il loro habitat, costruendo infrastrutture come strade e ferrovie, impianti sciistici, linee elettriche, dighe. E per disturbare la migrazione di questi animali, costringendoli a deviazioni importanti e ad ammassarsi in aree ristrette, basta davvero poco.
“Due o tre persone al giorno su un’unica strada o un sentiero sono sufficienti a far cambiare direzione agli animali: proprio per questo l’areale di distribuzione delle renne è ormai ampiamente frammentato”, confermava in un’intervista a National Geographic Manuela Panzacchi, ricercatrice italiana oggi in Norvegia. “Mentre un centinaio d’anni fa le renne norvegesi erano divise in due-tre grossi nuclei, oggi si contano più di 20 aree in cui gli animali vivono confinati, a causa di strade, ferrovie, centri abitati”.
Secondo le stime degli scienziati l’habitat delle renne si è ristretto di oltre il 50% solo negli ultimi 50 anni. Tra il 1960 e il 2003 le renne selvatiche in Norvegia sono passate da 60 000 a 30 000. Sulla Lista Rossa della IUCN, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, oggi le renne (Rangifer tarandus) sono una specie vulnerabile.
Il loro status di conservazione è stato aggiornato nel 2015, quando gli scienziati hanno documentato un declino del 40% per la specie nel corso di sole tre generazioni in tutto l’areale del circolo polare Artico. Il numero totale di ungulati del genere Rangifer (che comprende R. tarandus tarandus, la renna selvatica) è passato da quasi cinque milioni a meno di tre.
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