AMBIENTESPECIALI

Nuove parole per gli Inuit

‘L’apprendimento collaborativo’ degli Inuit dell’Artico e il nuovo vocabolario per affrontare i cambiamenti climatici.

Sheena Adams, dell’Inuvik regional Energy project, è al lavoro nei Territori del Nord Ovest, in Canada, terra delle ultime roccaforti degli Inuit canadesi, quella che più di tutte sta risentendo dell’aumento delle temperature. Crediti immagine: Ansgar Walk, Wikimedia Commons

SPECIALE DICEMBRE – Immaginate un luogo in cui la vita si regge totalmente su una piattaforma galleggiante, praticamente senza terra sotto i piedi. È la tipica ambientazione dell’Artico, la porzione di mondo all’estremo nord in cui uno sparuto gruppo di isole e isolotti collegati uniti da una calotta di ghiaccio creano un ecosistema unico e complesso.
Questo tesoro planetario rischia di avere i giorni contati per via del surriscaldamento globale, e di questo ne stiamo diventando via via più consapevoli. Mentre fanno il giro del mondo le immagini degli orsi polari ridotti all’osso che arrancano faticosamente, è il caso di domandarsi anche che ne sarà di quelle popolazioni che faticosamente si sono adattate nei millenni al suo rigido clima  e oggi sono incerti sul futuro della loro casa.

Gli Inuit sono i tipici rappresentanti della vita umana alle massime latitutidini. Per intenderci stiamo parlando degli ‘eschimesi’, ma non chiamateli così, perché per loro sarebbe offensivo, quasi come chiamare un italiano ‘mangiaspaghetti’. Questo nome è infatti stato affibbiato loro da altri nativi americani, che volevano etichettare la loro abitudine di mangiare carne cruda. Oggi si trovano ancora in alcune zone del Canada, dell’Alaska e della Groenlandia, con alcune propaggini anche all’estremità della Siberia.

Nel 1922 uscì un film sugli Inuit che è considerato una pietra miliare del cinema: Nanuk l’esquimese. È in pratica il primo film documentario della storia, che narra le vicende di un ragazzo Inuit e della sua famiglia, alle prese con le difficile sfide di una vita quotidiana in una terra inospitale. Ammirare Nanuk cacciare con le proprie forze un tricheco, costruire un igloo e prendersi cura dei propri cari dà un’immagine forte ed emblematica dell’atavica lotta con l’esistenza.
Il gelo dell’Artico non ti regala nulla, e invita l’essere umano a sfoderare tutto il proprio potenziale per sopravvivere. È un mondo selvaggio e incontaminato che merita di sopravvivere, per quello che ancora sa trasmettere sulla forza della vita. E mentre si studia sempre più in profondità il fenomeno del cambiamento climatico in corso, inevitabilmente ci si sta muovendo anche per sostenere gli Inuit e gli altri popoli del Grande Nord.

Un recente progetto portato avanti da Sheena Adams dell’Inuvik regional Energy project dell’Arctic Energy alliance va in questa direzione. Sheena è al lavoro nei Territori del Nord Ovest, in Canada, la terra di Nanuk e una delle ultime roccaforti degli Inuit canadesi, quella che più di tutte sta risentendo dell’aumento delle temperature.
Laggiù gli Inuit si sono resi conto da un po’ di tempo che qualcosa sta andando storto da quando la primavera ha iniziato ad arrivare con diverse settimane di anticipo e che il permafrost sotto le loro case sta cedendo. Al punto che stanno iniziando ad aprirsi all’introduzione delle più recenti tecnologie umane per la sostenibilità ambientale.

Per loro che sono abituati a una vita semplice, a contatto con la natura e con le ritualità della tradizione, non è immediato lo sforzo di implementare tecnologie come i pannelli solari e le turbine eoliche. La faccenda è resa ancora più complicata dal fatto che nella loro lingua non esistono neppure le parole per esprimere i concetti di ‘cambiamento climatico’ e ‘surriscaldamento globale’.
Per questo Sheena ha iniziato a recarsi sul luogo e ad aprire un dialogo con gli anziani dei villaggi Inuit per coniare nuovi termini da inserire nel loro linguaggio, così da poter introdurre concretamente le tecnologie legate all’energia rinnovabile.

La lingua Inuvialuktun conta ormai solo circa 600 Inuit che la parlano correntemente, e il progetto di Sheena ha dunque una duplice portata: da un lato infatti permette di aiutare a sostenere concretamente gli uomini dell’Artico accompagnandoli verso tecnologie energetiche più al passo dei tempi, dall’altro si propone di salvaguardare e arricchire la lingua stessa, un patrimonio culturale prezioso che rischia di andare perduto. “C’è una grande spinta per aiutare a ripristinare quel linguaggio”, spiega la Adams, “perché, come molte lingue indigene del mondo, lo stiamo perdendo. Così ho pensato che questo sarebbe stato un buon modo per sostenere quel movimento promuovendo l’energia rinnovabile e la conservazione.”

Nel corso di un brainstorming di diversi giorni con gli anziani parlanti Inuvialuktun, sono nate ben 186 nuove parole in tre distinti dialetti, che includono tutto lo scibile sulla sostenibilità energetica e sul cambiamento climatico.
Dalle testimonianze raccolte dai creatori del nuovo vocabolario Inuvialuktun si scopre che in realtà il compito non è stato così difficile, poiché anche l’evoluzione del linguaggio, come qualsiasi processo evolutivo, segue dei processi naturali, e in qualche modo ‘si crea da solo’.
“Il concetto di conservazione”, ha dichiarato Beverly Amos dell’Inuvialuit cultural resource centre di Inuvik, “è sempre stato fondamentale per la mia cultura. Una volta, prima del contatto con gli europei o con altre razze, avevamo una  nostra forma di salvaguardia per qualsiasi cosa, inclusa l’energia. Questo significa che esistono parole riguardanti la vita sostenibile: devono essere solo aggiornate per adattarle alle moderne tecnologie. Basta solo tornare indietro e trovare il modo migliore per usarle per i giorni d’oggi e per questa epoca.”

Nella maggioranza dei casi le nuove parole hanno preso forma dall’associazione inedita di parole già esistenti, esattamente come in italiano abbiamo unito i concetti di ‘energia’ ed ‘eolica’ per descrivere l’energia eolica. In Inuvialuktun, per dire ‘turbina eolica’ si dice ‘annugihiut anugihiuttin’, che deriva dall’unione tra le due parole che esprimono i concetti di ‘vento’ e ‘turbina’, che però nella loro lingua fa riferimento alle ali della libellula.

Per una migliore diffusione delle nuove parole all’interno della popolazione, il progetto di Sheena Adams prevede anche una campagna di condivisione di materiale iconografico come tazze, t-shirt e altri oggetti da distribuire ad adulti e soprattutto ragazzi delle scuole, contenenti le parole appena coniate e il loro significato.
Ma la parola che ha riscosso il successo maggiore di tutte non è tra quelle proposte da Sheena, ma è nata spontaneamente dalla creatività dei nativi Inuvialuit, mentre cooperavano per questo progetto. La preferita è ‘taniktuun’, che suona come ‘apprendimento collaborativo’. La loro definizione è la seguente: ‘imparando insieme diventiamo più intelligenti’.
È un bel risultato inatteso prodotto da questa cooperazione multietnica, e un messaggio costruttivo per sensibilizzare quanti ancora si fermano alle differenze e restano chiusi al contatto con gli altri.

Gli Inuit canadesi avranno allora d’ora in poi il loro linguaggio e la loro conoscenza per far fronte alle minacce ambientali e continuare a perpetuare le loro tradizioni così affascinanti. E se non dovesse bastare, forse il clima presto farà loro un regalo inatteso. È uscita qualche mese fa una ricerca scientifica che afferma che in una trentina d’anni il surriscaldamento climatico potrebbe invertire la rotta a causa di una variazione dei cicli solari, con un calo dell’attività del Sole del 60% e la scomparsa delle macchie solari. Si tratta delle stesse condizioni che in passato avevano originato delle ‘piccole età glaciali’, come quella che tra il 1645 e il 1715 portò al congelamento del Tamigi di Londra. Sono dati controversi ed è impossibile prevedere gli effetti certi sul clima, ma possiamo incrociare le dita e attendere.

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