32 ore per raccontare Trieste
Come si realizza un video a 360°? Dopo aver partecipato alla prima maratona in Italia sulla realtà virtuale, ecco cosa è successo e come si racconta una storia filmando ogni oggetto presente intorno alla videocamera.
TECNOLOGIA – 115 200 secondi. 1 920 minuti. 32 ore. Questo il tempo a nostra disposizione per familiarizzare con gli altri membri della squadra, farci venire idee interessanti, trovare un accordo sulla storia da raccontare, raggiungere i luoghi scelti per le riprese, filmare, tornare alla base, scaricare i filmati, visionarli, decidere come montarli ed esportare il tutto. 32 ore per raccontare Trieste a 360°.
Questa la sfida del VR Hackathon Contest, progetto TSFF (Trieste Film Festival) goes VIRTUAL promosso da Alpe Adria Cinema in collaborazione con PAG-Progetto Area Giovani del Comune di Trieste. Con altri nove ragazzi e ragazze tra i 18 e i 35 anni, suddivisi in quattro squadre, ci siamo sfidati tra il 19 e il 20 gennaio con una tecnologia ancora estremamente nuova in Italia, in una gara dal ritmo serratissimo che prevedeva la vincita di tre videocamere a 360°. Un’occasione per cimentarsi con questo nuovo modo di raccontare, affiancati da tutor esperti sul lato tecnico e non solo.
Cosa vale la pena di filmare con una videocamera a 360°? Secondo Aimone Bodini, storyteller, produttore e creatore di contenuti in realtà virtuale presso Proxima Milano, la questione è più complicata di quanto si potrebbe pensare. “Bisogna chiedersi: quali storie possiamo raccontare con la realtà virtuale? Oggi vedo una sostanziale carenza di buoni contenuti, dovuta soprattutto alla mancanza di consapevolezza di quali siano le peculiarità di questo nuovo mezzo. Non si può pensare di replicare le stesse regole o tecniche del cinema attuale. Le riprese con il dolly (una specie di carrello che si sposta su binari, sul quale viene fissata la videocamera, N.d.A.), per esempio, non sono adatte alla VR, perché fanno nascere un conflitto tra quello che vedi e quello che percepisci, generando un senso di malessere.” Vedersi protagonisti di un movimento quando si è completamente fermi provoca una certa nausea, motivo per il quale anche i video a 360° con i droni in volo hanno difficilmente successo. Ma non si tratta solo di un problema legato alla fisiologia: se il tentativo è quello di portare chi guarda sul posto, farlo sentire immerso nei luoghi e nella narrazione, effettuare riprese in movimento porta a realizzare che non si è davvero lì, strappando lo spettatore dalla “sensazione di presenza”.
La stessa cosa avviene con l’audio: trovarsi calati in una situazione dove sono chiaramente presenti delle sorgenti sonore ascoltando un audio piatto, uniforme o slegato dalla situazione può essere straniante. Axel Drioli, produttore e designer di audio immersivo sottolinea come la combinazione tra i sensi, con questo mezzo, debba essere più forte: in presenza di incongruenze tra suono e video l’immersione si interrompe.
Dennison Bertram, fotografo, visual artist e VR creator, spiega come il 360° offra un punto di vista davvero in prima persona, permettendoti di vedere il mondo come se davvero fossi là, che tu sia un personaggio in quella storia o sia una specie di spirito incorporeo che si limita a osservare. Mitja Klodič, regista di documentari a 360°, ne esplicita i pregi: “la grande differenza è che non sei nelle riprese, non sei dietro alla macchina da presa: lei è là da sola, e in questi casi succede qualcosa di diverso. Se non c’è nessuno, davanti a te, a filmarti, ti comporti in maniera differente, riesci di più a essere te stesso, anche perché le videocamere sono molto meno riconoscibili. Se le persone nelle riprese sono più spontanee riesci ad avere ancora di più la sensazione di essere lì, e per i documentari è straordinario”.
“Una videocamera a 360° è qualcosa di strano, sostanzialmente una piccola palla, non assomiglia a quelle conosciute, quindi si ottengono spesso dei bei primi piani di persone che si avvicinano per cercare di capire cosa siano”, rincara Antonio Giacomin, esperto di VR. E Bodini prosegue: “l’idea di inquadratura non esiste più: non sai esattamente dove sta guardando lo spettatore. Questo spaventa i registi tradizionali, perché devi avere a che fare con una nuova libertà da parte di chi ne fruisce ed esserne consapevole. Per guidare l’attenzione di chi guarda si può utilizzare, per esempio, il movimento: i nostri occhi sono attratti da esso, fin da quando gli essere umani dovevano sopravvivere nella savana. Oppure la luce, dal momento che siamo attirati dalle sue sorgenti.” O il suono.
Quindi, come raccontare Trieste, tenendo conto di tutti questi aspetti? Le quattro squadre hanno scelto di percorrere strade estremamente diverse:
Dopo esserci ritrovati alle 9:30 al Polo Toti e avendo ascoltato le istruzioni e le regole da seguire, i quattro gruppi hanno iniziato a pianificare il lavoro. Sono le 10:00. Il brainstorming è stato fervente ed eclettico, fino a spingerci a esplorare una strada molto diversa da quella che ognuno, singolarmente, aveva immaginato. Da una guida turistica pensata per chi non avesse mai visitato la città, un video dall’atmosfera horror e un documentario sui lati scientifici e non, io, Walter Bromwell e Leoluca Toppazzini abbiamo pensato infine a sottolineare la contrapposizione tra i luoghi più famosi di Trieste e quelli più sconosciuti.
Ma non bastavano le immagini di luoghi mozzafiato per accostare il dark side e il light side della città: serviva una storia, con un personaggio che agisse dentro di essa. Walter si è offerto come attore, ma come farlo passare da un posto all’altro? Qui ci siano scontrati con una difficoltà tecnica: se guardiamo una persona andare verso la sinistra dello schermo, al momento del cambio scena non può rientrare dalla destra, o non la vedremo, perché girati da un’altra parte. In più, sarebbe stato necessario misurare la distanza dalla videocamera, per ricreare dei movimenti omogenei. A un certo punto, l’illuminazione metacinematografica: Walter avrebbe trovato in un luogo abbandonato un visore per la realtà 3D. Indossandolo, sarebbe stato catapultato nei luoghi più suggestivi di Trieste.
Nel frattempo si era fatto mezzogiorno passato: bisognava filmare, finché c’era luce, perché questo tipo di videocamera non rende molto bene con luminosità scarsa. Tra varie prove, ci scontravamo con la necessità di dover scomparire se non eravamo previsti nella scena, quando non potevamo nemmeno fingerci ignari passanti. Oltre a questo, è difficile riprendere senza sapere che aspetto avrà il video: questo tipo di videocamere non ha alcun display, e il modello affidatoci permetteva di vedere i video in tempo reale solo su cellulari della stessa casa produttrice. Eravamo ormai quasi arrivati al Faro della Vittoria, speranzosi di aver ripreso quello che ci serviva per rappresentare il dark side. Per il light side, dopo aver filmato Piazza Unità d’Italia e il molo Audace, la luce stava sempre più venendo a mancare. Per le ultime riprese ci siamo spostati al Museo Revoltella, dove abbiamo cercato, tra le mille stanze, quali potessero rendere meglio circondando lo spettatore.
A quel punto siamo tornati al Polo Toti per guardare il materiale che avevamo a disposizione. Ma – sorpresa – prima di guardarlo era necessario fare lo “stitching”: ovvero bisognava ricucire i due diversi video ripresi dalle due lenti della videocamera. Per farlo servono software appositi: viene realizzata una giunzione automatica, in base al tipo di cinepresa usata, poi si controlla che non ci siano alberi doppi o persone tagliate. Un lavoro di equilibrio, in cui se si aggiusta alla perfezione un lato si guasta l’altro. Dopo quest’operazione laboriosa, era necessario esportare i file, per poterli montare insieme con un altro programma. Questa parte era estremamente lunga e frustrante: a volte si trattava di più di mezz’ora per un paio di minuti di video. All’improvviso erano le 4:00.
La sala ormai è quasi vuota, siamo in pochi a litigare con i computer, sperando che si sbrighino. Una volta terminate le esportazioni, bisogna montare il video. Siamo nel bel mezzo del “dawn chorus” (grazie ad Axel Drioli, per avermi fatto scoprire il nome di questo fenomeno), ovvero quel momento prima dell’alba in cui gli uccelli cantano in un modo che, se non si dormisse profondamente, renderebbe impossibile prendere sonno. Il Polo, lentamente, si ripopola.
32 ore e una cartella di più di 60 gigabyte di materiale da gestire. Più passano le ore, più lo stress e la stanchezza si fanno sentire. Proviamo una prima esportazione, per guardare il lavoro fatto nel visore e controllare se tempi e cambi di scena sono a posto. Aspettiamo nervosamente per un’ora. Poi il computer si blocca, sputa un file minuscolo che non si apre nemmeno: tutto da rifare. Anche le altre squadre devono barcamenarsi con pc lenti o che improvvisamente si bloccano: elaborare questo tipo di file è davvero lungo e complesso. Walter e Luca intanto cercano le colonne sonore, che abbiniamo alle immagini che più si addicono loro. Ritentiamo con l’esportazione: questa volta funziona, diamo un’occhiata al video sullo schermo.
L’aspetto ironico è che quasi tutto il materiale a 360° prodotto viene fruito su mezzi “flat”: dal computer ai cellulari, utilizziamo gli oggetti per noi di uso più comune, ma che con i loro schermi piatti non riescono a restituire un’esperienza davvero immersiva. Rifiniamo le ultime cose, i tutor (Dennison Bertram, Antonio Giacomin, Matevž Jerman, Karim Shalaby) ci danno gli ultimi consigli. Sono le 17:00 passate. Ultima esportazione. Sono le 18:00. Finito.
Guardiamo i nostri lavori e quelli degli altri, ci lasciamo emozionare.
La realtà virtuale non riguarda solo video maker e sound designer, come spiega Aimone Bodini. Dietro a tutto questo c’è molto di più. Si studia come si comportano le persone nella realtà virtuale, per esempio. Psicologi, neuroscienziati… E per creare esperienze ancora più immersive servono interior designer e architetti. “Quando sei al cinema non pensi che qualcuno ti guardi”, dice Dennison Bertram. Ma nei video 360° “the way you watch the film watches you”.
Grazie alle “heat map” si può sapere dove e quando la persona guarda in un certo punto, scoprendo molte più cose su di essa di quante, probabilmente, vorrebbe. E se questo, da un lato, può sembrare un po’ inquietante, magari in futuro permetterà di guidare i video a seconda di dove rivolgiamo lo sguardo, forse grazie a interfacce cervello-computer. Le storie smetteranno di essere lineari, avranno un software alle spalle che modifica la narrazione a seconda di come interagiamo. Bertram prosegue: “un anno fa l’attrezzatura e la parte di post produzione erano davvero complicati, il processo di creazione di video in 360° era nelle mani di professionisti estremamente specializzati che si divertivano a trovare un modo per far spostare una persona nelle riprese da un punto A a un punto B, impiegando ore per avvicinarsi a una soluzione, viste le tempistiche necessarie per fare anche le cose più semplici.
Ora si trova una grandissima varietà di prodotti orientati al consumatore: quest’ultimo non è particolarmente interessato a far camminare qualcuno da un punto A a un punto B, ma preferisce saltare da una scogliera, fare paracadutismo, sciare… Questo tipo di camere può semplicemente essere fissato sulla testa e si è pronti ad andare: gli strumenti di oggi, poi, ti permettono di caricare direttamente la tua esperienza su Facebook. Questo andamento del mercato, per quanto dai professionisti possa essere visto come un passo indietro, in realtà è un passo avanti di massa. Questa situazione in cui sempre più persone condividono foto a 360° di dove si trovano, o video immersivi delle proprie esperienze, sta creando un nuovo genere in terza/prima persona, dove chi filma è parte del video che guardi. Nel cinema la squadra che si occupa delle riprese non fa mai parte del film, il regista, il tecnico delle luci, i dipendenti del catering non ne fanno parte. Nel 360° orientato al consumatore chiunque stia riprendendo è presente, e non si guarda il video solo per la storia, ma anche per vedere l’esperienza di cui il filmmaker è parte integrante. Questo è un cambiamento radicale che spingerà davvero il 360°”.
Nel frattempo anche i videogiochi hanno iniziato a percorrere la strada della realtà virtuale, realizzando dischi magnetici sui quali poter camminare e correre, imbrigliati da bretelle, per spostarsi all’interno dell’avventura o creando addirittura dei parchi di divertimenti basati sulla realtà virtuale, dove visori, cuffie e corazze che trasmettono colpi e pressione fanno dimenticare a molti partecipanti che si tratta solo di simulazioni. D’altra parte, lo slogan è “why play a game if you can live it?”. Si tratta di un mezzo dalle potenzialità enormi, capace di trasportare chi non può muoversi in luoghi che ha solo immaginato, o di catapultare giovani e anziani tra le stelle molto prima che i viaggi spaziali raggiungano un prezzo abbordabile per tutti.
Alla fine le meritate vincitrici del contest sono state Giulia Massolino e Anna Violato dell’Associazione Explora, due comunicatrici della scienza che hanno costruito un’emozionante storia sulla malattia mentale. Credo che per tutti sia stata un’esperienza davvero intensa, dal punto di vista fisico e mentale. Ma tutti abbiamo imparato molto, e possiamo definirci gli orgogliosi pionieri della prima VR Hackathon del nostro Paese.
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