La paura del futuro: 7 distopie sul grande schermo
Serie come Black Mirror e Il racconto dell'ancella hanno riacceso i riflettori su di un sottogenere spesso usato come monito per le scelte della società
STRANIMONDI – Predire il futuro è un affare dannatamente complicato. Ma forse non è mai davvero stato questo lo scopo principale della fantascienza. Sia nei racconti e nei romanzi, sia sul grande schermo le storie di astronavi e alieni sono in realtà sempre stati più interessanti come riflessione sugli esseri umani e le società che hanno costruito. Tra tutti i sottogeneri della fantascienza, la distopia è sicuramente quello che ha più di altri provato a esasperare alcuni aspetti, magari critici, del presente per immaginare quali potrebbero essere le implicazioni che ancora non vediamo.
Visto il successo di serie come Black Mirror (di cui abbiamo recentemente parlato della nuova serie) e The Handmaid’s Tale ho pensato di andare recuperare film che mi sono particolarmente piaciuti e che si possono, in maniera più o meno aderente, definire distopie. Attenzione, non si tratta per forza dei migliori film del genere (anche se una parte sono capolavori del cinema). Ho, infatti, provato a mettere in evidenza per ognuno dei film quale aspetto è di particolare interesse sul fronte distopico. In questo modo, ho tentato di dare una panoramica degli aspetti attuali che possono essere estremizzati per farci riflettere sulle scelte che facciamo quando agiamo in società. Mi pare, inoltre, che questa carrellata di film ben si accompagni alla campagna elettorale che stiamo vivendo. In fondo, che cosa fanno i candidati se non costruire piccole distopie retoriche a partire dalle promesse degli avversari?
1984 (Michael Radford, 1984)
Non si poteva che partire da George Orwell e dal suo romanzo che racconta la società nei territori dell’Airstrip 1, comprendenti l’ex Gran Bretagna, trasformatasi in un regime totalitario di stampo fascista. Questo non è il primo adattamento (c’è da ricordare almeno Nel 2000 non sorge il sole del 1956), e presumibilmente non sarà nemmeno l’ultimo. Questa versione interpretata da uno straordinario John Hurt è particolarmente fedele al romanzo da cui è tratto. L’aspetto distopico più interessante, e di grandissima attualità, è probabilmente quello legato al lavoro del protagonista al Ministero della Verità: un continuo riscrivere la storia secondo le esigenze del potere, consapevole che “chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Suona familiare rispetto alle polemiche sulla rimozione delle statue sudiste negli Stati Uniti o i monumenti dell’epoca fascista in Italia?
La censura: Fahrenheit 451 (Francois Truffaut, 1966)
Anche per questo film la base è un grande libro, scritto da uno dei più grandi scrittori americani tout-court del Novecento: Ray Bradbury. Il nodo cruciale dei modi di esercitare il potere in questa società del futuro è il controllo delle opinioni. Quale soluzione migliore, quindi, che istituire un corpo di pompieri con il compito di agire in modo drastico: portarsi sul luogo dove vengono segnalati dei libri e, lì per lì, bruciarli, con un fuoco attentamente calibrato alla temperatura indicata nel titolo, quella ideale per lo scopo. Il riferimento più immediato è al 10 maggio del 1933, con il più famoso rogo dei libri operato dalle autorità della Germania nazista. Non vi ricorda i tentativi di Donald Trump di non far uscire il recente Fire and Fury?
Elite e schiavi moderni: Metropolis (Fritz Lang, 1927)
Un modo altrettanto efficace di esercitare il potere è separare nettamente e in maniera statica una piccola porzione della società che gode del frutto del lavoro di una maggioranza tenuta in una condizione di sostanziale, anche se non necessariamente esplicita, schiavitù. È uno dei centri di questo capolavoro del cinema muto che ha, tra l’altro, ispirato un celebre videoclip dei Queen, quello di Radio Ga ga. Ma la pellicola è attraversata da tanti altri temi, come quello del rapporto tra progresso tecnologico e umanità, il controllo della tecnologia da parte del potere e la vertigine della megalopoli (accennando quindi indirettamente alla relazione città/campagna, che all’epoca non era così centrale come invece è diventata in seguito).
Giustizia violenta: Robocop (Paul Verhoeven, 1987)
Film giudicato all’epoca piuttosto violento, Robocop è una di quelle storie che non lasciano indifferenti. In un futuro non troppo lontano la criminalità è un problema sempre più pressante. Da tempo la polizia sta studiando un sistema di vigilantes potenziati, dal cervello umano ma dal corpo robotico invincibile o quasi, per combattere le bande più violente. Sullo sfondo di un piano di sviluppo urbano megagalattico, il poliziotto Alex Murphy/Robocop diventa un’arma estremamente efficace, ma brutale. La risposta ai problemi sociali come il crimine è, in questa visione distopica, la violenza. Insomma, la politica del pugno duro, che non ammette deroghe e che separa nettamente tra criminali e cittadini, prendendosi in parte anche il ruolo del giudice e sicuramente quello del dispensatore della morale. Quante volte abbiamo sentito parlare di necessità di maggior controllo di polizia, che se non basta deve essere affiancata da ronde/volontari/passeggiatori della sicurezza?
Il crimine come patologia: Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971)
Non esattamente un film di fantascienza, ma sicuramente distopico, Arancia meccanica è, come la quasi totalità dei film di Stanley Kubrick basato su di un romanzo, in questo caso scritto da Anthony Burgess. Lo si potrebbe quasi vedere come complementare a Robocop. Qui, infatti, seguiamo le gesta di un delinquente violento, Alex, che con la sua banda di drughi violenta, uccide, distrugge senza apparentemente uno scopo preciso. L’aspetto che mi pare più interessante rispetto a questa lista di film è il racconto della rieducazione del criminale a cui assestiamo nella seconda parte. Alex viene sottoposto a una sorta di riprogrammazione pavloviana al fine di avere la nausea e provare dolore ogni volta che è testimone di violenza (o sente la musica di Beethoven), al punto che Alex sembra più che altro uno di quei sopravvissuti alle cure dell’elettroshock somministrate nei manicomi. Ecco una società che in fondo ritiene che chi delinque debba essere curato per rientrare nel consesso civile, e che comunque non si fa troppi problemi a usare metodi piuttosto invasivi per ottenere il ritorno alla norma. Nonostante le polemiche suscitate all’epoca, Kubrick non è particolarmente interessato a estetizzare la violenza, quanto piuttosto domandare allo spettatore se ci sia poi questa grande differenza tra il male e la cura.
Social stories prima di Instagram: The Truman Show (Peter Weir, 1998)
Anche in questo caso, con la grande interpretazione di Jim Carrey, non siamo di fronte a un film in tutto e per tutto di fantascienza, ma è difficile pensare che non sia stato nei pensieri di Charlie Brooker quando ha immaginato alcuni degli episodi di Black Mirror. La vita in presa diretta distribuita via televisione al grande pubblico di un uomo medio, assolutamente non eccezionale, sembra una previsione di quello che è arrivato dopo. Prima c’erano i reality show, quelli che chiamavamo Grande Fratello prendendo in prestito la parola proprio da George Orwell. Poi sono arrivati i social network e le stories che ognuno di noi può creare e condividere. In questa società dello spettacolo (apparentemente) democratica, in cui tutti possiamo ricavarci uno spazio di notorietà, in realtà, proprio come per il protagonista del film, contiamo perché abbiamo tanti follower a cui le agenzie di comunicazione possono mostrare le loro pubblicità. Truman Burbank non lo sapeva, noi dovremmo, ma pare non fare molta differenza.
Il ghetto: District 9 (Neil Blomkamp, 2009)
Quando è arrivato in Europa dal Sud Africa, questo lungometraggio di Neil Blomkamp è sembrato un fulmine a ciel sereno. Ma il regista era già da molto tempo attivo nella fantascienza con una serie di corti. Anche per questo suo esordio sulla lunga distanza, in realtà, dovremmo probabilmente parlare di un film di fantascienza con elementi distopici. Qui il tema distopico è quello della ghetizzazione su base razziale, un nervo particolarmente sensibile nel paese di Nelson Mandela e dell’apartheid. Solo che in questo caso sono gli alieni, arrivati nel 1982 sopra Johannesburg, a essere confinati proprio nel District 9. La motivazione: evitare che la tensione tra le razze diventi esplosiva e vada fuori controllo. Il film corre lungo un filo sottile, in equilibrio tra satira sociale e commedia, strappando anche qualche risata. Che però chi lo guarda non può evitare di alternare a pensieri angoscianti: Soweto e le township, i ghetti della Germania nazista, la Giungla di Calais, i CIE/CARA italiani…
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