Immunoterapia per la leucemia: nuovi passi in avanti in Italia
Un primo bambino è stato curato al Bambino Gesù di Roma e un altro, ora in osservazione, ha ricevuto il trattamento. A breve un terzo riceverà la terapia per intervenire su un neuroblastoma
RICERCA – Attualmente la terapia che si propone a una persona – adulto o bambino – con una diagnosi di leucemia linfoblastica acuta è anzitutto la chemioterapia. Se il paziente non risponde o se si ha una ricaduta, si valuta il trapianto di midollo, che sebbene rappresenti una scelta molto invasiva per la vita del paziente, che per un lungo periodo non potrà riprendere in tutto e per tutto la propria vita, rimane comunque una speranza concreta per molti. Ma non per tutti. In alcune persone la leucemia si ripresenta nuovamente a poca distanza dal trapianto, e a loro fino a oggi la medicina non ha saputo fornire altre possibilità.
Oggi invece una speranza concreta ce l’abbiamo e rientra nell’ambito della terapia genica. Dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma è arrivata una notizia importantissima: un bambino di 4 anni, affetto da leucemia linfoblastica acuta e refrattario alle terapie convenzionali, è stato trattato grazie all’infusione delle cellule riprogrammate in laboratorio e a distanza di un mese dall’infusione il bambino sta bene ed è stato dimesso, poiché nel midollo non vi è più traccia di cellule leucemiche.
Attualmente è stato curato un secondo bambino che è in fase di osservazione e un altro verrà trattato a breve per un neuroblastoma. “Va precisato tuttavia che non si tratta di una possibilità già disponibile per tutti: siamo ancora nella fase sperimentale, dove valutiamo gli effetti del trattamento su alcuni pazienti a cui non siamo in grado ad oggi di offrire altre strategie di intervento. Se otterremo, come speriamo, buoni risultati su altri pazienti, potremo iniziare la cosiddetta fase tre, in cui si recluta un campione più ampio di malati in vista di sottoporre la terapia alla valutazione di AIFA richiedendone la commercializzazione” spiega a Oggiscienza Ignazio Caruana, fra i ricercatori coinvolti nella sperimentazione. “Nel caso della leucemia il tempo considerato necessario per poter parlare di guarigione sono 5 anni, però già aver osservato che a distanza di un mese dall’infusione nel bambino non c’è più traccia di tumore, dopo che sia il trattamento convenzionale con alte dose di chemioterapia e trapianto di midollo, che ad oggi rappresenta lo strumento più potente nelle nostre mani per poter combattere questa malattia, è un risultato altamente promettente”.
L’impiego della terapia genica (modificare il genoma delle cellule immunitarie per renderle capaci di attaccare il tumore) per curare malattie come la leucemia non è nuovo. Questa tecnica prende il nome di CAR-T (Chimeric Antigenic Receptor), e ha il compito di potenziare i linfociti, che sono cellule del sistema immunitario, e per questo rientra nel novero delle tecniche di quel ramo della ricerca oncologica che va sotto il nome di immunoterapia. In sostanza l’approccio dell’immunoterapia è l’opposto di quello chemioterapico: con la chemioterapia si cerca di aggredisce direttamente il tumore con i farmaci inducendo tuttavia importati effetti collaterali, l’immunoterapia invece va ad “armare” il nostro stesso sistema immunitario per renderlo in grado di eliminare il cancro in maniera più specifica riducendo le tossicità.
CAR-T è stata sperimentata per la prima volta con successo nel 2012 negli Stati Uniti su una bambina di 7 anni con leucemia linfoblastica acuta, dai ricercatori dell’Università di Pennsylvania presso il Children’s Hospital di Philadelphia. Da allora sono partite numerose sperimentazioni in tutto il mondo, i cui risultati hanno portato pochi mesi la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia del governo americano che si occupa di regolamentare i prodotti immessi nel mercato, ad approvare il primo farmaco a base di CAR-T sviluppato dall’industria farmaceutica. “Questo farmaco utilizzato negli Stati Uniti però non produce grandi risultati in termini di costo efficacia per i sistemi sanitari – spiega Caruana – anzitutto perché è necessario produrne moltissimo per ogni singolo paziente, il che lo rende molto costoso per le case farmaceutiche e quindi per i governi. Parliamo di circa 400 mila dollari per un solo trattamento. Inoltre la tossicità rimane elevatissima. La nostra tecnica invece è meno costosa ed è anche meno tossica, dal momento che prevede l’utilizzo di un cosiddetto gene suicida, che altro non è che un interruttore capace di spegnere le cellule geneticamente modificate nel giro di pochi minuti”.
Nel dettaglio, l’approccio adottato al Bambino Gesù ha usato una piattaforma virale differente per la trasduzione delle cellule, per realizzare cioè il percorso di modificazione genetica. Diversa è la sequenza genica realizzata, che prevede anche l’inserimento della Caspasi 9 Inducibile (iC9), il gene suicida appunto, attivabile in caso di eventi avversi, in grado di bloccare l’azione dei linfociti modificati. È la prima volta che questo sistema, adottato grazie alla collaborazione dell’Ospedale con Bellicum Pharmaceuticals, viene impiegato in una terapia genica a base di CAR-T: una misura ulteriore di sicurezza per fronteggiare i possibili effetti collaterali che possono derivare da queste terapie innovative. “A anche a Monza degli studi analoghi sono i fase di sperimentazione – precisa Caruana – ma con una strategia utilizzata completamente differente”.
Un altro elemento di novità rispetto all’approccio americano è che il processo di manipolazione genetica e la produzione del costrutto originale realizzato per l’infusione – che è da considerarsi un vero e proprio farmaco biologico – sono avvenuti interamente all’interno dell’Officina Farmaceutica (Cell Factory) del Bambino Gesù, autorizzata da AIFA. Il processo di produzione dura 2 settimane, a cui vanno aggiunti circa 10 giorni per ottenere tutti i test indispensabili per garantire la sicurezza del farmaco biologico che si va ad infondere nel paziente per via endovenosa.
“Fondamentale è stata per noi la formazione che abbiamo ricevuto negli Stati Uniti – conclude Caruana – dove da anni conducono questo genere di studi, ma sono contento di essere tornato in Italia a proseguire questo lavoro, che ha fatto sì che in Europa siamo gli unici a eccezione del Regno Unito che sta iniziando una sperimentazione analoga, a fornire questo tipo di speranza in pazienti che al momento non hanno purtroppo altre prospettive”.
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