Trump e l’offensiva deregulation: quanto indietro si può tornare?
Il presidente americano ha promesso di correggere il suo ordine esecutivo di inizio mandato, riportando indietro le lancette fino agli anni ’60
ESTERI – Nel suo primo discorso da Presidente sullo Stato dell’Unione, Donald Trump ha ricordato, tra le altre cose, a quanti e quali benefici condurrà il programma di tagli a regolamenti e burocrazia governativa per l’economia americana. In quest’occasione, il presidente Trump ha scelto l’esempio di Motor City a Detroit, una città mortificata “dalla ruggine e dalla disoccupazione”, mentre il suo mandato farà “riaccendere i motori a Detroit”, così come sono già state scongiurate o vinte “la guerra all’energia americana e la guerra al carbone pulito” (e “bellissimo”).
Questo è solo l’ultimo di molti slogan sulla marcia della deregulation che ha segnato il passo del primo anno di mandato di Donald Trump, concluso con una trovata dall’impatto scenico efficace – e che in effetti ha fatto tremare ancora di più i polsi di tutte quelle istituzioni che si occupano, soprattutto, di ambiente e salute, già sofferenti per i pesanti tagli all’EPA: impugnando un paio di forbici d’oro, l’11 dicembre Trump ha tagliato un simbolico nastro rosso che separava due pile di carta, diverse per altezza e consistenza. Una montagna di fogli da un lato, e una piccola risma dall’altro, il vecchio e il nuovo della burocrazia, insomma. Con questa mossa da showman, il presidente americano ha promesso di correggere ancora il suo ordine esecutivo di inizio mandato, per cui al posto di tagliare 2 vecchi regolamenti per ogni nuovo firmato, si passa a 22 per tornare ai livelli di una risma, cioè mettere indietro le lancette fino agli anni ’60.
Ambiente ed energia schiacciati dal torchio della deregulation
I proclami su risanamento infrastrutture e deregulation sono stati a detta di molti osservatori tra le ragioni principali della vittoria di Donald Trump e delle reazioni positive della borsa nei mesi subito successivi le elezioni del 2016. La sistematica scomposizione e riorganizzazione delle regole che frenerebbero l’America raccontata e inseguita da Donald Trump, è continuata per tutto il 2017. Solo nei primi cento giorni ci sono state più di venti revisioni. Per esempio è stato dato il via libera alla costruzione di oleodotti come il Dakota Pipeline , sono stati revocati i limiti delle emissioni di metano su territorio pubblico e ritardata una regolamentazione sulle emissioni di mercurio, e riviste le politiche di trivellazione offshore. Sono state in sostanza ribaltate tutte le politiche ambientali condotte da Barack Obama, con un violento cambio di rotta in fatto di lotta al cambiamento climatico e controllo dell’inquinamento.
L’atto il più eclatante e discusso in questo senso è stato l’annuncio di voler uscire dagli accordi di Parigi del 2015. Ad ottobre, inoltre, è stato avviato il processo di revisione del piano EPA per la riduzione delle emissioni nelle centrali elettriche – il Clean Power Plan voluto da Obama – dopo che a marzo l’ufficio di Scienza e Tecnologia aveva eliminato la parola “science” dalla missione dichiarata sul sito internet dell’agenzia e in estate era stata preannunciato il rilancio del carbone (la “fine delle guerre all’energia e al carbone” citate al Congresso il 30 gennaio). L’offensiva della deregultaion continuerà con maggiore enfasi anche nel 2018, stando a quanto anticipato da Trump, e riguarderà uno spettro sempre più ampio di settori su cui intervenire – sono coinvolti anche l’agricoltura, la finanza, l’educazione, internet e i media in generale, i trasporti, la manifattura, il sistema fiscale (l’ATR ha pubblicato una lista delle società che godranno dei bonus fiscali), l’immigrazione. Il campo d’azione più infuocato è tuttavia ambiente ed energia, mentre uno studio uscito su Applied Energy durante la campagna elettorale concludeva che entro quest’anno ogni nuovo impianto energetico dovrà essere a emissioni zero se volgiamo avere almeno il 50% di chance di rispettare gli obietti di Parigi.
Torna la primavera (silenziosa)?
L’invito a tornare agli anni ’60 potrebbe sembrare l’ennesimo slogan trumpiano che evoca con nostalgia gli American graffiti di una società percepita in continua crescita e invulnerabile. In realtà, lo scenario ambientale americano era all’epoca tutt’altro che idilliaco e la ragione per cui Trump guarda così lontano è ovviamente solo di carattere politico-burocratico: tutte le numerosi leggi americane che tutelano l’ambiente e la salute sono state istituite a partire dalla fine degli anni ’60, fino agli anni ‘80, quando il pacchetto di normative in merito era piuttosto scarno, appunto. Fu un altro presidente repubblicano a dare inizio a quello che viene ricordato come il decennio dell’ambientalismo. Il 1 gennaio 1970, Richard Nixon firmò il National Environmental Policy Act (NEPA), che obbligava il governo federale a condurre studi di impatto ambientale in caso di nuove costruzioni, e poco più tardi creò l’Environmental Protection Agency (EPA), e nello stesso periodo il congresso approvò il Clean Air Act, che stabiliva dei limiti alle sostanze inquinanti emesse in atmosfera dalle fabbriche e dagli autoveicoli. Due anni più tardi, nel 1972, arrivò il Clean Water Act, che analogamente definiva regole al rilascio di sostanze potenzialmente inquinanti nelle acque superficiali e sotterranee e obbligava i polluters, ovvero in primo luogo le industrie a dichiarare la natura delle sostanze chimiche utilizzate e chiedere autorizzazione per lo smaltimento. Oltre a questi due principali, storici interventi, grande importanza ebbe anche l’Endangered Species Act del 1973 che permetteva al NOOA e al Fish and Wildlife Service di proteggere specie a rischio estinzione – un successo particolare degli ambientalisti che approfittarono della distrazione di Richard Nixon, in quel periodo alle prese con il Watergate.
Nel 1969, il fiume Cuyahoga in Ohio era talmente inquinato che prese fuoco. Non era la prima volta che succedeva, precedenti eventi erano stati raccontati e segnalati nel libro di Rachel Carson del 1962, Silent Spring (“Primavera silenziosa”, libro simbolicamente associato alla nascita del movimento ecologista contemporaneo) che iniziava a mettere in guardia sui rischi dell’inquinamento ambientale americano.
Le fiamme del fiume Cuyahoga diventarono il simbolo di uno stato di degrado galoppante in tutti gli Stati Uniti. A New York, il fiume Hudson era diventato talmente scuro da non poter più distinguere i pesci o le piante acquatiche – i newyorkesi mormoravano che “Si poteva capire che auto stava producendo la General Motors dal colore degli inquinanti sversati nell’Hudson” – e volte il ponte di Brooklyn era nascosto alla vista dalla fuliggine di inquinanti atmosferici della metropoli. Nel New England e in buona parte del mid west, le piogge acide provocate dai fumi ricchi di solfo e azoto delle fabbriche di carbone uccidevano le foreste della zona. La situazione insomma era simile a quella che si registra oggi in città come Pechino – la memoria storica dell’America quei giorni viene conservata dalla stessa EPA, che mette a disposizione una ricca galleria immagini dal suo archivio.
Lo scenario evocato da Donald Trump farebbe insomma rimpiombare gli Stati Uniti in una condizione favorevole ai quei disastri scongiurati negli anni 60 anche dalla stessa volontà di cittadini esasperati, che votarono prima per il Pure Waters Bond Act (1965), precursore del Water Quality Act, e infine del Clean Water Act firmato da Nixon (mentre il Ceal Air Act era una versione allargata dell’Air Pollution Control Act del 1955). È opinione diffusa inoltre che questo reset di norme vecchie e più recenti non siano assicurati tutti i vantaggi industriali ed economici sperati.
Marcia indietro, strada in salita
Quanto è realistica l’idea di un ritorno agli anni 60? Secondo Neomi Rao, amministratore nominato da Trump dell’Office of Information and Regulatory Affairs (OIRA, ufficio che ha il compito di controllare che le regolamentazioni delle Agenzie non confliggano tra di loro), serve innanzitutto una legislazione ad hoc e l’appoggio del Congresso. Rao ha inoltre dichiarato, proprio a margine della cerimonia del taglio del nastro di dicembre, che “bisogna intanto ridimensionare ciò che Trump presenta come un record senza precedenti. Non si tratta di una gara”, e ha specificato che i 67 regolamenti finora rivisti, celebrati dallo stesso Trump, sono solo un completamento di processi già avviati.
Il processo per avviare la deregulation, soprattutto in seno all’EPA, inoltre, è piuttosto farraginoso.
Negli Stati Uniti, l’ambiente viene protetto con statuti – cioè leggi approvate dal Congresso – e regolamenti – cioè leggi promulgate da Agenzie Federali (la costituzione non prevede ancora una parte dedicata a un concetto così relativamente giovane): il Congresso approva una legge con un criterio e un obiettivo generale, e questo statuto autorizza un’agenzia indipendente come l’EPA a emanare norme che le compagnie devono fare o non fare per raggiungere quell’obiettivo. Ma per definire ed emanare le opportune regolamentazioni, possono passare molti mesi. Gli uffici dell’EPA si occupano prima di stilare gli opportuni piani economici, valutare le norme giuridiche, tutte le conseguenze ambientali e sanitarie, dopodichè la palla passa all’Ufficio gestione e bilancio della Casa Bianca e in ultima fase bisogna tener conto della società civile, organizzazioni non profit e attivisti, per garantire che tutto funzioni per il meglio. Tornare indietro in questo percorso può tradursi in un lavoro anche più pesante per il Congresso, e per le Agenzie avventurarsi in un processo che può renderle vulnerabili al controllo pubblico e esposte a continue sfide legali.
L’amministrazione Trump ha già adottato alcune scorciatoie, come ritardare gli iter o tagliare i budget. La battaglia a colpi di deregulation sarà ancora lunga.
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