L’uomo che sussurrava ai neonati
È morto a 99 anni T. Berry Brazelton, il pediatra americano che ha rivoluzionato il modo di intendere lo sviluppo del bambino e quello di interagire con lui e la sua famiglia
GRAVIDANZA E DINTORNI – “Come una rivoluzione copernicana, che ha radicalmente cambiato il modo in cui pensiamo al bambino e lo studiamo”. Barry Lester, pediatra e psichiatra infantile della Brown University, non ha certo usato mezzi termini per definire il contributo scientifico e sociale di Thomas Berry Brazelton alla pediatria. E allo stesso modo la pensano molti genitori che, in questi primi giorni dopo la sua scomparsa, affollano i social di messaggi su quanto il lavoro anche divulgativo di Brazelton – autore di numerosi libri popolari e, tra gli anni ottanta e novanta, di una fortunata trasmissione tv negli Usa – li abbia aiutati ad affrontare l’arrivo di un bebè o i momenti più critici della relazione con lui. Lo riassume bene un tweet di Amy Dickinson del Washington Post, “la profonda comprensione del Dott. Brazelton nei confronti dei neonati, dei bambini e dei loro ansiosi genitori ha aiutato a trasformare innumerevoli famiglie”.
A poche settimane dal suo centesimo compleanno, Brazelton è morto il 13 marzo scorso nella sua casa di Barnstable, in Massachusetts, e i media americani si sono subito riempiti di testimonianze sul suo lavoro, condotto al Children’s Hospital di Boston, dove ha fondato un reparto dedicato proprio allo sviluppo del bambino, e come professore di pediatria alla Harvard Medical School e libero professionista. Diversi i suoi contributi fondamentali. “Anzitutto il riconoscimento delle molteplici competenze del neonato, che già a partire dall’inizio della sua carriera negli anni cinquanta, Brazelton non vede più come un essere dotato semplicemente di qualche riflesso agli stimoli esterni, ma come una persona con temperamento proprio e capace di competenze relazionali e sociali e di un ruolo attivo nell’interazione con la mamma”. Parola del pediatra e neonatologo Gherardo Rapisardi, co-fondatore del Centro di formazione Brazelton dell’Ospedale Meyer di Firenze, che ricorda il collega americano come un grande maestro e amico, assolutamente speciale nella sua capacità di “entrare nel mondo dei bambini e di parlare a genitori e operatori con la voce dei bambini stessi”.
Negli anni settanta Brazelton traduce questa visione del bambino appena nato in uno strumento clinico, la Scala di valutazione del comportamento del neonato, un esame del bambino nato a termine (“ma ne è stata poi sviluppata una versione anche per il neonato prematuro” puntualizza Rapisardi) concepito proprio per far emergere alcune sue abilità fondamentali, come le competenze sociali o la capacità di regolarsi e organizzarsi in base all’interazione con l’ambiente. Una valutazione, hanno spiegato sulla rivista “Medico e bambino” Rapisardi e Adrienne Davidson, fisioterapista pediatrica co-fondatrice del Centro Brazelton, che consente di “descrivere un’ampia gamma di comportamenti neonatali, le competenze e le risorse del piccolo, così come le difficoltà e le deviazioni dalla norma”. E che è stata usata in varie ricerche per valutare gli effetti sul comportamento neonatale di fattori di rischio prenatali o perinatali, come l’uso di farmaci in gravidanza o in travaglio.
Le osservazioni di Brazelton si sono estese però anche ad età successive al periodo neonatale e alla primissima infanzia, arrivando a definire un’altra delle pietre miliari del suo lavoro: il modello dei Touchpoints, momenti critici o sensibili dello sviluppo. Pur nell’ambito di un’ampia variabilità individuale, si tratta di momenti prevedibili nella maturazione del bambino – per esempio quando comincia a camminare o a manifestare le prime opposizioni e i primi no – preceduti da periodi di “riorganizzazione” in cui il piccolo sembra andare incontro a regressioni o a “crisi” comportamentali (come pianto prolungato e rifiuto del cibo) che possono disorientare i genitori. Il modello – diffuso nel mondo attraverso una serie di centri Touchpoints (“anche a Roma ne è stato costituito uno da poco” precisa Rapisardi) – è certamente uno strumento clinico, nel senso che offre al pediatra occasioni “prefissate” di per promuovere la salute del bambino e prevenire possibili deviazioni nello sviluppo, ma si distingue soprattutto come strumento di profonda collaborazione con i genitori. “Per questo è fondamentale che fin da subito ogni visita al bambino sia condotta in presenza di mamma e, se possibile, papà” sottolinea Rapisardi, inorridendo al pensiero dei punti nascita – per la verità la maggioranza – in cui ancora si eseguono i controlli di routine dei primi giorni di vita senza la mamma. “Certo, si riesce comunque a vedere come funziona la ‘macchina’ bambino, ma si perde completamente l’incontro con una persona che vive in quanto parte di una relazione unica e speciale con i suoi genitori”.
Non solo: “Secondo la visione di Brazelton, è fondamentale che da ogni incontro con il pediatra, i genitori escano sentendosi riconosciuti e valorizzati nelle loro competenze”. Il modello, insomma, non è più “io operatore vi dico cosa dovete fare per far crescere bene il vostro bambino”, ma: “Io operatore chiedo a voi genitori una mano per aiutarvi a mia volta a promuovere lo sviluppo del vostro bambino”. In effetti è proprio questo l’altro aspetto rivoluzionario del lavoro di Brazelton, che non si è limitato a dare valore alle competenze del bambino, ma ha insistito moltissimo anche su quelle della famiglia. “Noi pediatri – afferma Rapisardi – siamo esperti del bambino in generale, ma di ogni bambino in particolare i veri esperti sono i genitori”. Ai quali Brazelton – noto anche per i suoi interessi antropologici (ha studiato nascita e accudimento neonatale in diverse culture) e l’impegno a favore di norme per il congedo parentale – ha dedicato tutta la sua attività divulgativa. Nello sforzo di convincerli che ogni mamma e ogni papà hanno dei punti di forza fondamentali nella relazione con il figlio, che l’accudimento di un bambino deve contemplare momenti di gioia e divertimento e non può appiattarsi solo sull’ansia e la preoccupazione di “fare bene”, che per le mamme è normale – e non deve essere fonte di vergogna – sentirsi esauste e spazientite, perché non c’è niente di più faticoso che prestare continua attenzione a un bambino piccolo. Tutti messaggi che puntano, per dirla con un termine oggi piuttosto di moda, all’empowerment dei genitori e più che mai attuali in un’epoca in cui invece si tende a delegare a vari esperti il controllo e la regolazione della vita con il bambino (quante poppate deve fare, come deve dormire, quando deve abbandonare il pannolino e così via). Eppure – insegna Brazelton – non ce ne sarebbe poi così bisogno. Perché, in fondo, ogni genitore “sa”.
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