TECNOLOGIA

Tatuaggi elettronici da mangiare

All’Istituto Italiano di Tecnologia è stato sviluppato il primo circuito elettronico commestibile. Questo tipo di tecnologia consentirà in futuro di sviluppare farmaci intelligenti o di monitorare l’assimilazione del cibo.

TECNOLOGIA – Perché mai mangiare un circuito? Quando si pensa a qualcosa di commestibile un circuito elettronico non è certo tra le prime cose che vengano in mente. Eppure questo è proprio quanto è stato realizzato da un team di ricercatori dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) coordinato da Mario Caironi e Guglielmo Lanzani. Si tratta di circuiti sotto forma di tatuaggi realizzati tramite tecniche di stampa con materiali organici e biocompatibili che li rendono commestibili e a basso costo. Lo studio è stato svolto al CNST (Center of Nano Science and Technology), il centro di IIT di Milano, in collaborazione col centro IIT di Pontedera. I risultati dello sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Advanced Materials e dimostrano la possibilità di realizzare semplici circuiti elettronici composti da materiali commestibili che siano facilmente integrabili e trasferibili su pillole o alimenti.

Ma tornando alla domanda di apertura, quale utilizzo potrebbe avere una tecnologia del genere? E come funziona? Ecco cosa ci ha spiegato uno dei coordinatori della ricerca, l’ingegnere elettronico Mario Caironi.

I circuiti commestibili possono sembrare uno strano campo di ricerca. Come mai se ne occupa?

Me ne occupo perché in futuro potrebbero permettere di sviluppare una tecnologia completamente sicura che operi all’interno del corpo umano consentendo di migliorare la qualità della vita. In che modo? Ad esempio andando a supportare le cure per i pazienti oppure monitorando le loro condizioni in tempo reale. L’idea è quella di associare funzionalità elettroniche – quindi una sorta di piccola intelligenza artificiale – a oggetti che si ingeriscono, primi fra tutti i medicinali. In questo modo il medicinale che viene introdotto è capace di comunicare con l’esterno cosa sta succedendo. Il primo livello del loro utilizzo è quindi, ad esempio, di controllare l’assunzione di un farmaco: quando l’ho preso e quanto ne ho preso. Questo già consentirebbe di verificare l’aderenza alla terapia da parte del paziente

L’elettronica commestibile però può servire anche a monitorare il rilascio del farmaco oppure a controllare le condizioni di acidità dello stomaco nel momento in cui viene assunto. Questo consente di seguire il farmaco nel suo percorso di assimilazione e avere un grado di controllo in più per capire se una cura funziona o meno. Più in futuro il sogno – chiamiamolo sogno perché è molto in la nel tempo – è quello di complicare sempre di più questa elettronica aggiungendo sensori molto specializzati che possono andare a monitorare alcuni parametri importanti all’interno del corpo come ad esempio la motilità del tratto intestinale – nel caso di problemi associati a digestione e assimilazione di cibi – oppure, altra funzione molto importante, di monitorare le infezioni. Ovviamente stiamo parlando di sistemi molto più complessi in cui ci sono sensori, elaborazione del segnale e trasmissione. Però questa è la visione che abbiamo a lungo termine e il motivo per cui ci stiamo occupando dello sviluppo di elettronica commestibile.

Come sono fatti questi circuiti che avete sviluppato?

I nostri circuiti sono pensati su materiali a base di carbonio. Sono circuiti che chiamiamo organici, composti da sostanze ad alta biocompatibilità. Li realizziamo con tecniche di stampa dato che i materiali che utilizziamo possono essere deposti come veri e propri inchiostri. Il sostrato su cui depositiamo i circuiti è lo stesso della carta da tatuaggio per bambini e può essere applicato facilmente a qualsiasi oggetto. Questa tecnica consente così di disaccoppiare le difficoltà legate alla costruzione del circuito dalla realizzazione dell’oggetto su cui il circuito deve funzionare. L’oggetto finale può avere così forma e consistenza meccanica diverse, ad esempio un capsula di un medicinale o del cibo, senza che ci sia alcun problema. Il substrato funziona proprio come un di un tatuaggio di carta temporaneo ed è trasferibile. Quello che va al soggetto finale è un sottilissimo strato di cellulosa, così sottile da diventare del tutto conforme al oggetto ingerito. Abbiamo mostrato che la superficie di applicazione può essere anche molto curva o rugosa come ad esempio la superficie di una fragola, ma il nostro substrato si adegua all’oggetto finale mantenendo intatte le funzionalità del circuito.

Ma il circuito in sé di cos’è composto?

Per realizzare un circuito non abbiamo bisogno solo di conduttori. Abbiamo quindi realizzato non solo piste conduttive, ma anche veri e propri transistor che costituiscono l’elemento base di un circuito elettronico. Questi necessitano della presenza di semiconduttori che sono la parte attiva del circuito e permettono di accendere e spegnere un transistor. E poi naturalmente c’è del materiale isolante costituito proprio dalla cellulosa del substrato. La parte conduttrice in particolare è costituita da piste di argento stampate a getto di inchiostro. L’argento è usato comunemente anche in pasticceria per fare la guarnizione di dolci quindi si può ingerire fino a una certa quantità e non è assolutamente tossico per il corpo umano. Il semiconduttore è invece un materiale a base carbonio. Per quanto riguarda questi materiali ne abbiamo selezionati alcuni la cui biocompatibilità è stata già dimostrata. Altri, quelli che abbiamo individuato per ottenere performance maggiori, hanno caratteristiche simili per costruzione ma non avevano dati disponibili per la loro biocompatibilità. Quindi come passo preliminare per dimostrare la loro compatibilità con la vita abbiamo fatto dei test che vengono chiamati di citotossicità: facciamo crescere delle colonie cellulari e verifichiamo che la loro proliferazione sia garantita anche su questi materiali. In seguito però lo studio sulla biocompatibilità andrà ulteriormente sviluppato.

Questi circuiti presentano già dei sensori di tipo molecolare?

Al momento ancora no. Il nostro studio è servito a dimostrare che è possibile trasferire dell’elettronica attiva su oggetti mangiabili come capsule o cibo. Di fatto non ci siamo occupati della questione dei sensori ma ci siamo occupati di quella parte di circuito che deve andare a leggere il segnale da essi prodotto. In un sistema futuro avremo naturalmente bisogno di sensori, elettronica, batteria e sistema di comunicazione.. Sviluppando un’elettronica attraverso tecniche di stampa e substrati commestibili siamo andati intanto a colmare questo tassello del sistema finale. In futuro poi il singolo transistor che andiamo a realizzare potrà essere sviluppato anche come base di un sensore. Infatti nell’ambito della bioelettronica organica questi transistor a base di carbonio spesso e volentieri sono l’elemento base di sensori, una volta sviluppati in modo opportuno affinché rispondano a certi stimoli. Questo livello ancora non c’è.

A proposito, quanto sono grandi questi circuiti?

Il tutto si può integrare su una capsula da medicinale, quindi entro un centimetro. Per noi quindi è possibile trasferire un certo numero di elementi e transistor e quindi avere un certo livello di complessità rimanendo sulle dimensioni di una capsula.

Ma una volta ingeriti quanto possono durare?

A questo livello non abbiamo ancora dati sistematici. L’idea è che comunque siano fatti per durare poco nel tempo. Quindi sono oggetti pensati per essere degradati all’interno del corpo così che non mi debba preoccupare di possibili problematiche legate all’accumulo. Non sto ingerendo un oggetto rigido e inerte che in casi di patologie potrebbe creare dei problemi collaterali, ho ingerito qualcosa che viene processato dal corpo esattamente come normale cellulosa, che non è un alimento, ma viene comunque degradata dal corpo in pezzi più piccoli. Viene perciò fatto stabile quanto basta per compiere la sua funzione: stiamo parlando di qualcosa che segue la normale digestione e che non duri più di 48 ore.

Esiste già qualcosa di simile? Cosa offre di diverso la tecnologia che avete sviluppato?

Nel mondo c’è un interesse diffuso nei confronti di quella che viene chiamata in senso più ampio elettronica ingeribile. Ci sono oggetti già molto sofisticati, pillole di qualche centimetro che al loro interno hanno un’elettronica molto complessa con telecamere che permettono di fare una sorta di gastroscopia e un monitoraggio dell’apparato digerente. E’ chiaro però che questi oggetti devono essere evacuati, recuperati e non si devono fermare all’interno del corpo. Inoltre hanno un costo elevato poiché si tratta di sistemi molto specializzati. Un altro approccio che è stato preso in considerazione è quello di integrare ad esempio chip di silicio nelle pillole di medicinali. Si tratta quindi di oggetti molto piccoli, dato che sono miniaturizzabili, ma anche questi sono elementi non degradabili. Tuttavia, nel caso si dovessero assumere diverse unità tutti i giorni, non è ancora dato sapere cosa potrebbe succedere se ci fossero dei problemi di accumulo. L’approccio che proponiamo va quindi nella stessa direzione, quella di portare elettronica all’interno del corpo, ma la nostra è un elettronica biocompatibile. La sua assunzione inoltre risulta più semplice in quanto questa elettronica di fatto scompare nell’oggetto che io vado a ingerire. Non mi accorgo della sua presenza nel farmaco, la ingerisco, svolge il suo compito e scompare. In più avendo utilizzato tecniche di stampa e materiali a basso costo, per questa elettronica è pensabile una produzione economica e di massa. Mi posso così permettere di andare ad aggiungere un chip a ogni singolo farmaco, poiché l’incidenza di queste funzionalità che andiamo a integrare è minima rispetto al costo del farmaco. Questo è l’obiettivo verso cui ci stiamo muovendo e la motivazione ad usare il nostro approccio rispetto a quello di altri.

Il prossimo passo?

Il primo passo che stiamo già facendo è quello di collaborare con i nutrizionisti e quindi di studiare in dettaglio i meccanismi di degradazione all’interno del corpo. Questo va fatto prima di tutto in ambiente di laboratorio simulando la digestione per testare i vari materiali che andremo ad aggiungere ai nostri circuiti con lo scopo di migliorarne le performance. Vogliamo quindi avere un ambiente di simulazione che ci permetta di verificare con il contributo di scienziati esperti di nutrizione cosa porta comporta l’assimilazione di queste sostanze. Questo viene fatto per essere assolutamente sicuri che non ci sia nessun pericolo possibile o addirittura per studiarne il profilo nutritivo. E’ un primo filone per noi molto interessante perché ci porta a parlare con scienziati che si occupano di tutt’altro. Su un altro versante è chiaro che dobbiamo lavorare a livello di completezza e integrazione del sistema. Noi abbiamo dimostrato che è possibile sviluppare un circuito elettronico biocompatibile. Ora grazie alla collaborazione con altri gruppi che nel mondo di si occupano di questa tematica dobbiamo integrare questa elettronica con una sorgente di energia che permetta il funzionamento per tutto il tempo necessario e che sia anche ingeribile, per arrivare poi alla fine ad avere tutti gli elementi: sensore, elettronica, batteria e trasmissione. Questi sono i due percorsi che percorreremo in parallelo.

Oltre al biomonitoraggio ci sono altre possibili applicazioni?

Visto che questi circuiti sono oggetti commestibili c’è anche la possibilità di poter andare a monitorare in modo diretto il cibo. Possono diventare di fatto un etichetta applicabile direttamente sul cibo, invece che sulla confezione, controllandone le condizioni nelle varie fasi di trasporto e immagazzinamento. In questo modo si potrebbero monitorare gli alimenti degradabili avendo così una certificazione dello stato di conservazione e fornendo una garanzia al consumatore finale. Un’altra possibilità ancora è quella di usare i circuiti come strumenti di diagnostica e terapia indagando, ad esempio, come i cibi vengono assimilati.

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Vincenzo Senzatela
Appassionato di scienze fin da giovane ho studiato astrofisica e cosmologia a Bologna. In seguito ho conseguito il master in Comunicazione della Scienza alla SISSA e ora mi occupo di divulgazione scientifica e giornalismo ambientale