Samuel Hahnemann e la nascita dell’omeopatia
Da diluizione e dinamizzazione fino al simile che cura il simile: ecco come è nata la medicina alternativa più famosa, la cui efficacia, secondo il fondatore, "dovrebbe essere giudicata esclusivamente dalla soddisfazione del paziente"
Sul finire del XVIII secolo Samuel Hahnemann, un medico di Meißen, piccola città della Sassonia famosa per le ceramiche, si accorge che prendere il chinino da sano gli provoca – anche se attenuati – gli stessi sintomi della malaria, la malattia per cui viene usato come terapia. È questa l’ispirazione per la sua intuizione più famosa, ovvero “il simile cura il simile” (similia similibus curentur), il principio che ancora oggi si trova alla base dell’omeopatia. La stessa parola omeopatia trae origine da questo principio; è infatti l’unione di due parole greche: ὅμοιος, òmoios (simile) e πάθος, pàthos (sofferenza).
Hahnemann sosteneva che, se un paziente soffriva di una malattia, gli doveva essere somministrato lo stesso medicinale che dato a una persona in salute avrebbe provocato sintomi simili, ma in una forma più leggera. Se si soffriva di forte nausea, la cura doveva essere una medicina in grado di provocare la nausea. Un’idea non così balzana all’epoca, anzi perfettamente sensata; quando alla fine del Settecento Edward Jenner usa il vaiolo bovino come vaccino per gli esseri umani, Hahnemann lo indica come dimostrazione delle proprie idee.
Salassi e lassativi, ma manca il principio di causa-effetto
Samuel Hahnemann, nato nel 1755, non si inserisce nella tradizione di ciarlatani e millantatori che fin dalla notte dei tempi hanno attirato clienti a latere rispetto alla “medicina ufficiale”. È un medico e, per circa 30 anni, esercita la professione come la maggioranza dei colleghi tedeschi e come molti di loro è insoddisfatto delle terapie impiegate all’epoca. Nel 1790, traducendo il Treatise of materia medica di William Cullen (1710 – 1790), celebre medico e didatta della scuola di Edimburgo, Hahnemann sintetizza così lo stato della terapeutica del suo tempo:
«Salassi, rimedi per la febbre, bagni tiepidi, tonificanti, dieta debilitante, pulizia del sangue, i sempiterni lassativi e clisteri formano il cerchio in cui il medico tedesco ordinario gira senza sosta».
La sua è una frustrazione condivisa da alcuni dei maggiori intellettuali tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Il filosofo Immanuel Kant (1724 – 1804) sottolinea la necessità di una riforma della medicina e il suo adeguamento agli standard di certezza delle scienze fisiche sviluppatesi con l’Illuminismo. Quello di Kant è un invito all’introduzione di principi quantitativi in una pratica medica che, in quel momento, si limita a un ascolto dei sintomi del paziente e una somministrazione per tentativi di rimedi che oggi definiremmo, in molti casi, palliativi. Manca quasi completamente un quadro di riferimento razionale, in cui la terapeutica si possa dire conseguenza logica di un sistema di analisi e pensiero: mancano gli studi che spieghino perché il tale medicinale dovrebbe essere efficace nei confronti della tale malattia. È quello che sostiene qualche anno più tardi G.W.F. Hegel (1770 – 1831), quando scrive:
«la materia medica non ha ancora pronunciato un singola parola razionale sulla connessione tra la malattia e il suo rimedio: la spiegazione viene lasciata esclusivamente nelle mani dell’esperienza».
Il sistema razionale più vicino a soddisfare le esigenze di razionalità di Kant e Hegel è all’epoca quello ideato da John Brown (1735 – 1788), allievo di Cullen. Secondo il suo pensiero, la salute di qualsiasi organismo consisterebbe nel mantenimento di un equilibrio tra la sua eccitabilità e gli stimoli interni ed esterni che la possono alterare (cibo, medicinali, emozioni). Il compito del medico è individuare, in questa sorta di equazione della salute, quali stimoli medicinali possano riportare in equilibrio l’organismo malato. Siamo lontani dall’idea di medicina che si sarebbe sviluppata sul finire dell’Ottocento, alla base di quella moderna: nessun trial per i medicinali, nessun uso della statistica, nessuna (o quasi) sistematizzazione e discussione dei risultati sperimentali. Non deve quindi stupire che il metodo proposto da Samuel Hahnemann abbia immediatamente trovato consensi: fornisce una chiave sintetica e logica in contrasto con la pratica terapeutica che va per la maggiore.
Un problema di diluizione
Dopo anni di sperimentazione di centinaia di rimedi, nel 1810 Samuel Hahnemann pubblica l’Organon der rationellen Heilkunde: contiene tutte le sue scoperte comparse, almeno fino a quel momento, su giornali scientifici. È nel 1814 che, nel suo pensiero, si affaccia un’idea che già allora rende teso il rapporto tra l’omeopatia e la medicina ufficiale. Secondo Hahnemann i medicinali devono essere somministrati in dosi che possano produrre solo sintomi attenuati delle malattie che devono trattare. Per far ciò, le preparazioni omeopatiche sono il risultato di una diluizione estrema, fino a una parte della sostanza originale su 100 milioni. Un rapporto che il poeta e medico americano Oliver Wendell Holmes (1809 – 1894) liquida con la battuta per cui la diluizione di Hanhemann avrebbe “richiesto le acque di diecimila mari adriatici”.
Dal canto suo, Hahnemann sostiene che i rimedi omeopatici mantengono la propria efficacia terapeutica a patto che il processo di diluizione sia accompagnato da un scuotimento violento – la “dinamizzazione” – grazie al quale il preparato finale mantiene il proprio potere sotto forma di una “forza spirituale immateriale”. Nel 1828, egli stesso annuncia non solo che opinioni come quella di Wendell Holmes sono sbagliate, ma che i suoi rimedi gli permettono di curare praticamente tutte le malattie conosciute. Si tratta, come nota lo storico della medicina Irvine Loudon in un articolo del Journal of the Royal Society of Medicine del 2007, di un’affermazione che all’epoca era sensata e difficilmente confutabile. La maggiore parte della malattie per cui l’omeopatia sembra dimostrarsi efficace, e per le quali secondo la ricostruzione di Loudon ancora oggi ci si rivolge più frequentemente all’omeopata, sono asma, depressione, otite, rinite allergica, mal di testa ed emicrania, nevrosi, allergie, dermatiti, artriti e ipertensione, ovvero “malattie […] transitorie e [che] scompaiono spontaneamente, oppure sono cicliche, e consistono di una serie di attacchi seguiti da remissioni spontanee”.
Scarsi i mezzi della terapeutica di inizio Ottocento
Oggi l’estrema diluizione è la causa principale della derisione dei metodi omeopatici, ma non era così all’epoca di Hahnemann. Il sistema esposto nell’Organon rispondeva alle esigenze di razionalità dei critici della terapeutica tardo settecentesca, come Kant e Hegel, ed era facilmente comprensibile da chi lo avrebbe dovuto utilizzare. La somministrazione di sostanze così diluite sembrava, ai malati, molto più sicura dei rimedi impiegati nella terapeutica del tempo. Come nota un altro storico della medicina, Roy Porter, nel suo The Greatest Benefit to Humakind: A Medical History of Humanity from Antiquity to Present (1997),
«la fortuna dei salassi è gradualmente andata scemando, ma […] la farmacopea era una borsa vuota […]. Le poche medicine efficaci erano il mercurio per la sifilide e la tigna, la digitale per rafforzare il cuore, il nitrato di amile per dilatare le arterie nell’angina, il chinino per la malaria, il colchico per la gotta – e poco altro…»
Accanto a queste poche medicine, come scrive Michael Emmans Dean, un altro storico della scienza e della medicina,
«[…] trattamenti debilitanti come i salassi o l’oppio, e stimolanti come l’alcohol, rispondevano a tutte le esigenze cliniche».
Non stupisce il favore che incontra la proposta di Hahnemann non solo tra i potenziali clienti, ma anche tra i medici condotti della propria epoca. Dove nasce allora la frattura tra gli omeopati e i medici ortodossi che lo costringono a lasciare Lipsia, dove svolgeva le proprie attività, per cercare rifugio a Parigi dove morirà nel 1843? La domanda apre un dibattito filosofico ampio e stratificato, che comprende la concezione della malattia (e della saluta) lungo due secoli di storia e che qui non andremo a indagare. Un punto però deve essere menzionato e può spiegare almeno in parte l’incommensurabilità che permane ancora oggi tra le due idee di medicina.
Un errore di prospettiva
Nell’idea di Hahnemann, esposta ampiamente nell’Organon, niente è “lasciato alla congiura, affermato senza prova, immaginato, inventato: tutto corrisponde alla risposta della Natura a un attento domandare”. Sembrerebbe il punto di partenza per un’indagine scientifica contemporanea, da Evidenced-Based Medicine. E in parte è proprio così: i risultati esposti nel volume sono il frutto di una rigorosa analisi e di osservazioni sperimentali attente. Leggiamo ancora un passo dell’articolo di Loudon:
«Se c’è mai stato un sistema medico che si è adoperato per un’attenta sperimentazione scientifica è l’omeopatia. Uno dei primi trial, realizzato nel 1835, è sorprendente perché è molto simile a uno studio controllato e randomizzato in doppio cieco, intrapreso molto prima di quando molti di noi credevano che tali studi fossero ideati e realizzati per la prima volta. Incidentalmente, mostra che l’omeopatia è inefficace».
Il lavoro di Hahnemann può quindi considerarsi addirittura più accurato di quello dei suoi contemporanei e di molti posteriori. Dove, però, si insinua il seme della discordia è in quali condizioni si possa definire efficace una medicina. Lo stesso Hahnemann fornisce la propria risposta nell’Organon:
«La maggior parte di ciò che viene registrato come vero risultato dell’esperimento deve essere volontaria dichiarazione del dimostratore: nulla deve essere congetturale, niente indovinato, e il minimo possibile dovrebbe consistere in risposte a domande formali»
Non si fa riferimento a misurazioni di alcun parametro, fattori che avrebbero soddisfatto la richiesta di quantificazione posta da Kant e nella seconda metà dell’Ottocento presa a modello per lo sviluppo della medicina. Ci si limita a registrare le sensazioni riferite da colui che ha ingerito il medicinale, lasciando la porta aperta a quelli che oggi chiameremmo bias. Detto in termini più rigorosi da Loudon:
«Alcuni medici omeopati suggeriscono che realizzare trial randomizzati e controllati sia un’attività per la medicina ortodossa, ma inadeguato per l’omeopatia, dove l’efficacia dovrebbe essere giudicata esclusivamente dalla soddisfazione del paziente».
Via da Lipsia, verso Parigi
La disciplina fondata da Hahnemann si diffonde rapidamente in tutta Europa e raggiunge presto anche gli Stati Uniti. Nel 1832, proprio a Lipsia, apre il primo ospedale omeopatico del mondo, sebbene non sia chiaro se Samuel Hahnemann fosse ancora in città. Secondo l’Enciclopedia Britannica il conflitto con l’accademia locale lo avrebbe costretto a lasciarla nel 1821 per Kothën, a metà strada tra Lipsia e Madgeburgo, dove trova rifugio presso il gran duca locale. Per il Science Musem di Londra, invece, Hahnemann lascia Lipsia nel 1835 per dirigersi direttamente a Parigi.
Di certo le controversie non si sono spente con la sua scomparsa nel 1843, ma anzi si sono acuite con il progressivo allontanamento dell’omeopatia dalla medicina ortodossa. È ironico che proprio le pratiche mediche che Hahnemann non riconoscevano come efficaci siano progressivamente andate scomparendo mentre l’omeopatia, che secondo i detrattori è altrettanto inefficace, è una pratica ancora altamente diffusa. Segno, forse, che le due discipline hanno davvero percorso strade diverse, incrociatesi parzialmente nel corso di questi due secoli.
Un aspetto delle idee di Hahnemann oggi può essere però considerato quasi di attualità. Non si tratta delle tecniche per la produzione dei rimedi omeopatici e nemmeno della loro presunta o reale efficacia. Quando Hahnemann si concentra sulle sensazioni del paziente per stabilire se la cura è stata o meno efficace compie un atto molto più moderno dei colleghi suoi contemporanei, interessandosi ad aspetti della salute del paziente che non sono necessariamente collegati con la patologia che si prova a curare. Si tratta di un rapporto medico-paziente che, in certa misura, oggi definiremmo olistico, e ne è conferma, nelle ricostruzione degli storici della scienza, l’importanza accordata dagli omeopati del XIX secolo a lunghi colloqui con il paziente.
Al contrario, la medicina ortodossa che si sviluppa durante l’Ottocento tende a vedere sempre più il paziente malato come un meccanismo da riparare, relegando in secondo piano ogni altro aspetto della vita del paziente. Si è quindi compiuta la trasformazione auspicata da Kant in favore di una medicina più razionale e matematica. Ma Hahnemann e i suoi metodi forse profetizzavano già allora esigenze che sarebbero emerse quasi due secoli dopo e che hanno portato alla nascita di movimenti come la slow medicine, la medicina narrativa e alle riflessioni sull’importanza psicologica della comunicazione medico-paziente. Tutti elementi che possono contribuire, accanto a tutte le altre pratiche che appartengono alla medicina contemporanea, al raggiungimento e al mantenimento dello stato di salute come auspicato dalla Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”.
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