Guida pratica alla costruzione di universi parte I
Creare un sistema solare con pianeti invisibili e/o inesistenti
L’estate è per molti il momento delle vacanze, in cui dedicarsi con maggior spensieratezza a se stessi e ai propri interessi. Se siete alla ricerca di un nuovo hobby, OggiScienza ve ne propone uno un tantino pretenzioso: la costruzione di universi. Attraverso una serie di articoli, incontrerete gli universi immaginati e creati da scienziati, filosofi, scrittori, visionari e narratori. Ne veranno esaminate le caratteristiche principali in modo da darvi alcuni spunti e suggestioni per costruire il vostro universo personale. In ogni articolo cercheremo di inserire un po’ di scienza, di storia della scienza e di arte e letteratura. La volontà è di essere sempre rigorosi nella consapevolezza di non poter essere completi: ovviamente non possiamo trattare tutti gli universi costruiti da tutti i cosmologi e i narratori della storia…e anche quando ci soffermeremo su un universo difficilmente lo potremo descrivere in modo completo in qualche decina di righe: ce ne scusiamo in anticipo. Quello che cercheremo di fare con questi articoli è stimolare la serendipity e la curiosità del lettore: ci auguriamo che qualcuno che ha letto un articolo per conoscere meglio la natura dei buchi neri finisca per interessarsi della genesi di Disneyland o della scuola di Hogwarts e viceversa. Poi, se qualche lettore vorrà cimentarsi, nel costruire un suo universo, seguendo anche le nostre tavole di istruzioni, ne saremo lusingati…
Prima di iniziare a costruire un universo, forse ha senso chiederci un po’ come è fatto il nostro, o per meglio dire, come abbiamo pensato e come pensiamo sia fatto il nostro.
Sì, perché, comprensibilmente, il creare un universo coerente in cui tutto quadra, tutto funziona come ce lo aspetteremmo, in cui tutto trova una spiegazione è sempre stato uno degli obiettivi (e dei crucci) dell’umanità.
E, molto umanamente, è successo spesso che, per far conciliare la propria visione del mondo con le osservazioni sperimentali, scienziati e cosmologi siano stati costretti a grossi sforzi immaginativi che li hanno portati a inventare sistemi cosmologici estremamente laboriosi e fantasiosi o semplicemente sbagliati.
Un buon esempio è l’universo dei pitagorici
Ai tempi di Pitagora (attorno al 500 a.C.), l’universo era relativamente piccolo e semplice: una successione di sfere concentriche su cui erano posti stelle fisse (nella sfera più esterna) e pianeti (Mercurio, Venere, Sole, Terra, Luna, Marte, Giove, Saturno) che ruotavano in modo armonioso. I pitagorici sostenevano che le distanze dei pianeti fossero basate su rapporti particolarmente “belli“, gli stessi che formano gli accordi musicali: insomma, se ponessimo tutti i pianeti su una lunga corda astrale e pizzicassimo questa corda nel punto dove si trovano i vari corpi celesti otterremmo qualcosa di intonato: se pizzicassimo assieme Venere e Giove otterremmo un accordo armonico. Per i pitagorici qualsiasi cosa era riconducibile ai numeri, base ed essenza di tutto ciò che esiste: non solo delle proporzioni delle cose che esistono in natura, dal mondo microscopico a quello macroscopico: anche qualità e concetti astratti, per esempio la bontà e la giustizia, erano espresse e spiegate in termini di relazioni numeriche che dovevano essere “belle”. Ordine e bellezza non potevano essere scissi. Si può comprendere perciò la scarsa simpatia di Pitagora verso i numeri irrazionali (cioè quei numeri che non possono essere scritti come un rapporto tra due numeri interi diversi da 0). Si dice anzi che Pitagora prese con poca sportività la dimostrazione, da parte di un suo discepolo, che la diagonale del quadrato non è un numero razionale: lo annegò nel mare di fronte a Crotone.
Tra tutti i numeri, il più sacro era il 10. Il 10 rappresentava il tutto, poiché è la somma delle dimensioni della realtà: il punto (l’1), la linea (il 2), la superficie (il 3), il solido (il 4). Inoltre, il 10 simboleggia anche la riduzione del tutto all’Uno (10=1+0=1) e l’equilibrio: la sequenza che porta al 10 infatti è costituita in egual misura da numeri primi e numeri composti, da multipli e sottomultipli. Il 10 veniva rappresentato con il simbolo sacro della tetraktys, sopra cui dovevano giurare i membri della confraternita pitagorica.
Manca un pezzo: costruiamo un’Antiterra
Ora, date queste premesse, era naturale pensare che l’intero universo fosse costruito attorno al numero dieci: se qualcuno però ha letto l’elenco dei pianeti e si è preso la briga di contarli, si sarà accorto che, anche aggiungendo il cerchio delle stelle fisse si arriva a 9 sfere. Se ne accorsero, ovviamente, anche i pitagorici che piuttosto di modificare la tetraktys togliendole un pezzo, decisero di aggiungerne uno al sistema solare. E quindi, per far tornare i conti, nel V sec. a.C. Filolao di Taranto, un seguace di Pitagora, arguì l’esistenza di un’Antiterra, che ruotava in un orbita posta tra la Terra e il Fuoco cosmico. Questa soluzione consentiva di prendere due piccioni con una fava: le sfere celesti risultanti erano dieci (in armonia con la tetraktys) e si giustificava anche il fatto che gli uomini non vedessero mai il Fuoco cosmico (la cui esistenza era un altro dogma della cosmologia pitagorica), che veniva oscurato da questa Antiterra.
La soluzione inventata da Filolao può farci oggi sorridere, ma anche dal punto di vista scientifico, non è una teoria del tutto bislacca: data la modesta eccentricità dell’orbita terrestre (0,0167…è quasi un cerchio) non avremmo modo di accorgerci di una Terra gemella diametralmente opposta a noi: ci sarebbe il Sole, in mezzo a coprirci la visuale. Soltanto da pochi decenni, dopo aver mandato sonde e telescopi nello spazio, possiamo dire che non abbiamo pianeti che orbitano con noi.
La presenza di corpi oscuri e di antiterre era poi già stata stata abbozzata da altri filosofi come Anassimene e Anassagora, che grazie ad essi spiegavano le eclissi lunari. E, a ben pensarci, anche la cosmologia contemporanea sembra non poter fare a meno di energia e materia oscura: entità che non si vedono, non si capiscono, ma la cui esistenza farebbe quadrare un po’ di cose.
L’idea di un Antiterra, moderna trasposizione del mito dei paesi lontani dove tutto è l’opposto, come il regno del prete Gianni o l’India nel medioevo, è stata ripresa spesso anche nella fantascienza: forse l’Antiterra che ha avuto più successo è quella creata da John Norman, che ci ambientò il suo controverso ciclo di Gor, una serie di romanzi e racconti che ha un suo nutrito numero di fan.
Inventiamo un pianeta che non c’è: la storia di Vulcano
In realtà però, fare ipotesi – col senno di poi fantasiose – che spieghino un’anomalia nelle regole del nostro universo (o di un qualsiasi sistema) per salvarne la coerenza è un atteggiamento diffuso in ambito cosmologico e scientifico. Nel 1859 l‘astronomo francese Urbain Le Verrier, che aveva già desunto l’esistenza di Nettuno (confermata poi dai telescopi) in base alle perturbazioni dell’orbita di Urano , giustificò le anomalie dell’orbita di Mercurio supponendo l’esistenza di un pianeta, da lui battezzato Vulcano, che ne avrebbe modificato il moto. Per Le Verrier se dalla Terra non si riesce a vedere Vulcano (lo stesso Mercurio è difficilmente individuabile) era soltanto perchè la sua orbita era troppo vicina al sole. Le Verrier ha tutta la nostra comprensione: il sistema newtoniano (che gli aveva fatto scoprire Nettuno) era perfetto, descriveva infallibilmente e in modo semplice tutto quello che accadeva nel sistema solare, dalla caduta di una mela all’orbita di Giove…funzionava per tutto tranne che per Mercurio! Perchè mai doveva essere messo in discussione? Era più facile supporre che ci fosse qualcosa di sbagliato (o non ancora compreso) in Mercurio piuttosto che nella legge di gravitazione di Newton. E così, per un breve periodo, il nostro sistema solare si arricchì di un nuovo pianeta inesistente.
La costante ʎ: la soluzione per tenere fermo l’universo
Fu Albert Einstein, nel 1915, a spiegare con la teoria della relatività generale, tra tante altre cose, il motivo per cui Mercurio orbitasse attorno al sole in modo “strano“. Fino alla fine dell’Ottocento, la cosmologia era rimasta ferma alle intuizioni e spiegazioni di Newton: egli vedeva lo spazio come un grande palcoscenico vuoto sul quale si muovevano pianeti, stelle e comete che interagivano tra loro grazie alla forza di gravità; era questa che ne determinava comportamenti e movimenti. Su questo palco gli attori più grossi, più importanti (il Sole, Giove) condizionavano il comportamento, la performance, di quelli più piccoli. Non solo, la legge di gravitazione universale di Newton poteva determinare in modo preciso il comportamento di qualsiasi nuovo attore (comete, asteroidi…) fosse entrato nel palcoscenico cosmico. Einstein ebbe l’intuizione di rendere lo spazio uno degli attori principali della sua fisica : non era più un qualcosa da riempire ma un elemento elastico, in grado di deformarsi e plasmarsi sotto il peso della materia e l’impulso delle forze a cui veniva sottoposto. In presenza di una forte concentrazione di massa (per esempio in prossimità del Sole, vicino a cui orbita Mercurio) lo spazio si curva e si distorce. Insomma, usando le parole di John Wheeler, eminente cosmologo statunitense: “la materia dice allo spazio come curvarsi, lo spazio dice alla materia come muoversi”.
Curiosamente, per continuare la metafora, gli sperimentatori teatrali degli anni di Einstein resero il palco qualcosa di diverso da un semplice spazio in cui si muovono gli attori: Pirandello rende il sipario uno dei protagonisti di Sei personaggi in cerca d’autore (il sipario si presenta già aperto all’inizio dello spettacolo, a togliere la divisione tra palcoscenico e pubblico, verrà attivato solo una volta, per sbaglio, dal macchinista durante tutto lo spettacolo); il sipario è al centro anche del corto teatrale Le basi di Marinetti, la scenografia è il fulcro di un’altra opera dello stesso autore: Vengono! sottotitolato significativamente “Dramma d’oggetti”.
Dopo anni di duro lavoro Einstein riuscì a tradurre le sue intuizioni in equazioni che erano in grado di descrivere, per un qualsiasi punto scelto, come massa ed energia curvassero lo spazio e come interagissero con la gravità. In poche parole, le equazioni di campo di Einstein potevano descrivere com’era fatto l’universo. E sebbene la stragrande maggioranza dei cosmologi, idraulici, panettieri convenissero che l’universo era uno, le equazioni prevedevano diverse variabili e potevano perciò portare a diverse soluzioni, diversi tipi di universi, tutti fisicamente possibili. Sarebbe stato necessario continuare a raccogliere dati sperimentali per riuscire a comprendere quali tra gli universi plausibili creati dalle equazioni rispecchiassero effettivamente il nostro e quali no, quale tra gli universi trovati nelle soluzioni delle equazioni corrispondesse meglio all’identikit dell’universo reale. Nel 1917 Einstein ricavò le prime soluzioni alle sue equazioni, ma si trovò davanti un fatto per lui (e per i suoi contemporanei) sconcertante, che ci fa capire come anche le menti più aperte, geniali e in grado di mettere in discussione le proprie convinzioni, tendano a forzare i risultati ottenuti verso qualcosa che capiamo e che accettiamo. Gli universi possibili trovati da Einstein si muovevano, cambiavano con il tempo! L’idea di un universo mobile, da noi accettata senza troppi problemi, andava contro all’immagine che Einstein e i suoi contemporanei avevano sempre avuto di universo: sembrava semplicemente assurda, sbagliata. Per far quadrare i conti Einstein introdusse allora nel suo modello una forza repulsiva (la costante cosmologica, che indicò con la lettera greca ʎ) in grado di contrastare la forza attrattiva della gravita e di evitare perciò che l’universo si espandesse o contraesse.
La costante cosmologica ʎ, definita poi dallo stesso Einstein “l’errore più grande della mia vita” in realtà ebbe una grossa importanza nella creazione di modelli di universo. Assieme alla curvatura dello spazio era il parametro più semplice che si poteva manipolare per creare universi.
Ma di questo parleremo la prossima volta. Nel frattempo vi lasciamo delle istruzioni e qualche esercizio da fare, qualora voleste creare un universo bello ed elegante (non per forza funzionante) come quello inventato da Pitagora e dai suoi discepoli.
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Disegni: Federica Moro