Sylvia Earle: “Siamo ancora in tempo per salvare gli oceani”
La scienziata di fama mondiale ha dato il via al National Geographic Festival delle Scienze di Roma, ricordandoci quanto siano numerose e impellenti le minacce per gli oceani. C'è ancora speranza, ma bisogna agire subito
EVENTI- “Dobbiamo capire che dobbiamo prenderci cura di quanto abbiamo qui sulla Terra, perché nel corso della storia è stata la Terra ad occuparsi di noi”. Esordisce così Sylvia Earle, oceanografa e biologa marina di fama mondiale, nel suo discorso che ha dato il via al National Geographic Festival delle Scienze di Roma (16-22 aprile, Auditorium Parco della Musica).
Nella sua lunga carriera Earle ha guidato oltre cento spedizioni scientifiche e documentato più di 7 000 ore di esplorazione subacquea. Oggi, con la sua organizzazione no profit Mission Blue, sta identificando gli Hope Spots degli oceani. Si tratta di aree uniche nel loro genere che diventano candidate per essere protette, nell’ambito di una campagna di conservazione. Grazie agli sforzi di conservazione degli scienziati, oggi circa il 12% dell’ambiente terrestre è tutelato nell’ambito di parchi naturali e riserve. Ma per gli oceani la percentuale è molto inferiore: appena il 6%.
“Oggi ci rendiamo conto di quanto abbiamo in comune con tutte le altre forme di vita. È negli oceani che trova origine buona parte dell’ossigeno della nostra atmosfera e sono gli oceani a governare la chimica del pianeta, ma solo ora iniziamo a capirne l’importanza. Solo ora capiamo quanto siano vulnerabili di fronte alle nostre azioni, abbiamo dati che mostrano come stanno cambiando in un modo che dovrebbe davvero preoccuparci. Ciò che succede ha un impatto su tutti. Ma noi tutti siamo anche così fortunati da vivere in un’epoca nella quale l’esplorazione degli oceani si sta aprendo, come fu per i cieli agli albori dell’aviazione”.
Una vita dedicata agli oceani
Quando Sylvia Earle ha iniziato le esplorazioni che l’avrebbero resa famosa in tutto il mondo era il 1964. Era in viaggio verso Mombasa, in Kenya, per imbarcarsi su un natante che sarebbe partito alla volta dell’Oceano Indiano.
Ma “per la prima volta avevamo anche la capacità di osservare sotto la superficie dell’acqua”, ricorda la scienziata. “La situazione era inusuale: ero l’unica donna a bordo insieme a 70 uomini, così quando sbarcammo a Mumbasa i giornalisti titolarono proprio “Sylvie parte con 70 uomini”.
Ma da allora sono cambiate molte cose: se da una parte abbiamo continuato a sfruttare gli oceani a ritmi insostenibili, non mancano i risvolti positivi. “Oggi le donne partecipano alla scienza, all’esplorazione, e io sarò felice il giorno in cui un giovane uomo potrà viaggiare su un natante che parte per l’esplorazione circondato da 70 donne”, ha raccontato. Grazie a rover e sommergibili, siamo finalmente anche in grado di “vedere l’oceano nel modo in cui lo vedono i pesci, le tartarughe, le balene, i delfini. Possiamo immergerci senza immergerci”.
Oggi vediamo crescere l’interesse per le esplorazioni oceanografiche, ma dati alla mano degli oceani sappiamo ancora pochissimo: coprono oltre il 70% della superficie del pianeta ma il 95% della loro estensione rimane inesplorato, mai visto da occhi umani. Eppure contribuiscono a regolare la temperatura sulla Terra e ospitano i nostri commerci e spostamenti. Sono anche la principale fonte di sostentamento per oltre tre miliardi di persone che vi dipendono per il lavoro e il cibo. Oltre la metà degli oceani ha profondità di oltre 3 000 metri. È spesso proprio negli abissi che fiorisce la biodiversità, ad esempio intorno alle sorgenti idrotermali.
Le risorse non sono infinite, né lo sono gli oceani
Lo sfruttamento degli oceani, ha proseguito Sylvia Earle, resta eccessivo. “Stiamo estraendo troppa fauna dalla profondità degli oceani, dai pesci ai calamari, dalle seppie ai polpi fino a organismi ancora più piccoli”, dice Sylvia Earle.
“Questo ha un impatto gravissimo sulla salute degli oceani, con conseguenze come i danni alle barriere coralline. Metà delle barriere del pianeta è già scomparsa o sta subendo un grave deterioramento, ormai dagli anni Ottanta. L’oceano di oggi è molto diverso da com’era quando ho iniziato le mie esplorazioni […] Possiamo catturare fino all’ultima balena e fino all’ultimo tonno rosso per farne dei prodotti da consumare, ma dovremmo invece guardare gli altri esseri viventi non solo per trarne beneficio a breve termine, e scegliere invece di proteggerli”.
Oltre all’overfishing, tra le minacce maggiori per gli oceani ci sono le specie invasive, i cambiamenti climatici, le trivellazioni per estrarre petrolio e gas naturale. Tra tutti spicca però l’inquinamento da plastica e microplastiche. Materiali che ci hanno consentito di produrre oggetti meravigliosi, che da subito sono apparsi come invenzioni grandiose ma “non abbiamo preso sul serio la durata del loro ciclo di vita”, sottolinea Earle. “Pensavamo potesse distruggersi in breve tempo ma oggi sappiamo benissimo che la plastica ha una lunga vita. E ne vediamo le conseguenze. Se continuiamo così, arrivati alla metà del secolo negli oceani ci saranno più oggetti di plastica che pesci. È una cosa enorme, ma sta succedendo ora”.
Uno dei problemi principali è il consumo ancora enorme di plastiche monouso: secondo i dati Euromonitor, ogni secondo vengono acquistate 20 000 bottiglie di plastica e meno del 50% viene raccolto per destinarlo al riciclaggio. Nel 2016 sono stati venduti 480 miliardi di bottiglie di plastica. Ogni anno finiscono in mare circa 10 milioni di tonnellate di plastica.
“Una cosa sappiamo per certa”, ha concluso Sylvia Earle. “L’oceano ci mantiene in vita e noi purtroppo abbiamo il potere di distruggerlo, ma anche di proteggerlo”.
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