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In vino veritas: facciamo luce sui nuovi trend del vino

Biologico, biodinamico, naturale, senza aggiunta di solfiti ma anche vegano e nutraceutico. Il mondo del vino è cambiato, proviamo ad analizzarlo con l'aiuto degli esperti

Il mondo del vino si è arricchito di nuovi elementi, mode, aspetti. Prima di acquistare è importante sapersi orientare: abbiamo chiesto aiuto agli esperti. Foto Pixabay

APPROFONDIMENTO- Biologico, biodinamico, naturale. Ma anche senza aggiunta di solfiti o, addirittura, vegano e nutraceutico. Il mondo del vino è cambiato, tanto che se un tempo conoscere le tipicità delle singole regioni poteva bastarci per indirizzare la nostra scelta, oggi non è più così. Chi era abituato a entrare in enoteca, o al supermercato, pensando di dirigersi semplicemente verso una bottiglia di bianco, rosso, bollicina o le etichette più rinomate, oggi si ritrova a fare i conti con un ulteriore “filtro”. Associato a un lessico nuovo e, a volte solo in apparenza, più scientifico.

Qual è il significato di queste categorie? Come orientarsi? E qual è, se c’è, il prodotto più sano? Ne abbiamo discusso con Paolo Pietromarchi, enologo e ricercatore del CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) e Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca ed esperto di alimentazione presso lo stesso istituto.

Quando un vino è biologico

Nessun prodotto chimico di sintesi durante la conduzione del vigneto, e in particolare nessuna molecola che possa entrare nel ciclo linfatico della pianta o nel frutto, né durante il processo di vinificazione: sono queste le principali disposizioni stabilite, in modo molto preciso, dalla normativa più recente sui vini biologici (Regolamento Europeo 203/2012).

«Chi produce vini bio deve, in generale, cercare di avere un basso impatto sull’ambiente e la pianta», spiega Pietromarchi, «e per questo deve crescere la sua vigna senza fertilizzanti chimici e proteggerla senza diserbanti, anticrittogamici, insetticidi e pesticidi di sintesi in genere». Ciò si traduce nel lavorare solo ed esclusivamente con prodotti cosiddetti “da contatto”: quelli che rimangono all’esterno da fusti, foglie, germogli e grappoli, un po’ come fanno i filtri fisici delle creme solari nel proteggerci la pelle in spiaggia, per intenderci. Tra le poche sostanze consentite, quelle contenenti rame e zolfo per le quali, comunque, devono essere rispettate delle soglie per evitare un’eccessiva dispersione nel terreno (sono metalli e inquinano).

Non si tratta semplicemente di vini “prodotti con uve biologiche”, bensì troviamo tutta una serie di restrizioni nell’impiego delle pratiche enologiche, «Molte delle quali a dire il vero già abbandonate anche dalla stragrande maggioranza dei produttori di vini di qualità», precisa Pietromarchi, «se vogliamo, meno industriali». Lo stesso vale per molti coadiuvanti per la vinificazione (circa metà, quelli consentiti); uno tra tutti, l’anidride solforosa, che funge anche da antiossidante e antimicrobico e che trova largo impiego come conservante nell’industria alimentare (succhi, patate e frutta confezionate e gamberi in primis).

Idem per i suoi derivati, i solfiti, in parte già presenti naturalmente nel vino ma che hanno attirato l’attenzione per gli effetti sul corpo che vengono loro attribuiti. Il più comune è il classico “cerchio alla testa”). Per essere definito biologico, un vino deve rimanere sotto i 100 (se rosso)/150 (se bianco) milligrammi di solfiti per litro: quantitativi leggermente più bassi rispetto a quelli richiesti nei vini non bio (150 mg/L per i rossi, 200 mg/L per i bianchi).

Non è possibile per il produttore alcuna forma di autocertificazione: sono enti appositi a rilasciare il certificato di conformità grazie al quale un vino biologico può dichiararsi tale.

Il vino biodinamico

Qui le cose si fanno un po’ più complicate. Produrre vino biodinamico, che di sicuro è la tendenza del momento, significa sposare la filosofia dell’esoterista austriaco Rudolf Steiner, formulata a partire dagli anni ’20. Il modus operandi di questo tipo di agricoltura riprende in parte quello dell’agricoltura biologica, ma con un approccio decisamente olistico: suolo, piante, luce del sole e organismi animali vengono considerati un unico elemento, sul quale focalizzarsi in toto e non una componente per volta. Obiettivo: creare un ecosistema-vigna il più possibile autosufficiente, limitando l’impatto dell’essere umano.

Nella pratica, oltre a forti limiti nell’impiego di prodotti chimici sia in vigna che in cantina, vengono introdotti nuovi fattori, come il divieto di utilizzare macchine agricole come i trattori, sostituiti per esempio dai cavalli, e dal punto di vista squisitamente ambientale non può certo essere oggetto di critica: di fatto contrasta nettamente con la monocoltura e presta grande attenzione a preservare terreno, la sua microflora e la microfauna. Le cose cambiano quando la si guarda con occhio scientifico: chi sposa al 100% questa disciplina fa costante attenzione alle fasi lunari, per esempio, così come generano perplessità i prodotti per la concimazione ideati da Steiner, autoprodotti o acquistabili e obbligatori per definirsi biodinamici.

Per darvi un’idea, ecco la ricetta di uno di questi, il preparato 500, chiamato anche cornoletame: riempire (appunto) un corno di mucca (che abbia figliato almeno una volta) con del letame, sotterrarlo in profondità nel terreno a fermentare per tutto l’inverno, riportarlo alla luce nel periodo pasquale e confezionarlo in barattoli traspiranti. All’occorrenza, diluire con acqua piovana o di sorgente, dinamizzare, spargere all’occorrenza. Principale funzione: stimolare e armonizzare i processi di formazione di humus nel suolo. «Non possiamo dire che una pratica simile “faccia male” o non possa produrre vini anche di altissima qualità», specifica Pietromarchi, «ma di sicuro alcune di queste pratiche non sono supportate da evidenze scientifiche».

In linea con il vino biologico, anche il biodinamico punta a una riduzione dei solfiti ed è oggetto di una forma di certificazione. La quale però, a differenza del biologico, proviene da un ente privato ed è ancora sprovvista di riconoscimento a livello legislativo.

Cosa sono i vini naturali

Meno complesso il discorso sui vini naturali. A parte, se vogliamo, il nome. «Il vino è di per sé un prodotto naturale, risultante dall’interazione tra zuccheri dell’uva e lieviti già esistenti in natura e che si chiama fermentazione alcolica, un processo biologico in piena regola».

Nel caso di questi vini però, il termine naturale è legato (oltre che a pratiche bio per la conduzione del vigneto) a una vinificazione in totale assenza di additivi né manipolazioni da parte del produttore. Quella più importante, l’impiego esclusivo dei lieviti indigeni dell’uva, senza alcun tentativo di veicolare la fermentazione attraverso lieviti selezionati come invece si fa nella vinificazione convenzionale (e che è la principale responsabile, oltre chiaramente alla varietà del frutto, dello sviluppo della maggior parte degli aromi e dei profumi).

Se necessari, i solfiti possono essere aggiunti, seppur in quantità molto limitate.

Il caso del vino vegano

No allo sfruttamento animale, no all’uso di prodotti di derivazione animale: il vino vegano si rifà chiaramente ai principi generali del veganesimo. Nel caso dei derivati, si traduce in prevalenza nel non-utilizzo di due coadiuvanti comunemente impiegati nella vinificazione: l’albumina, una molecola presente nell’uovo, e la caseina, presente nel latte, usate nella tradizione per rendere più limpido il vino grazie alla loro capacità di catturare le macromolecole in sospensione. Sostanze di questo tipo vengono via via eliminate durante la lavorazione, ma può comunque rimanerne traccia.

«Ci sono cantine che ancora, da tradizione, utilizzano albumina, o anche aggiungendo albume di uovo fresco, ma possiamo dire che sono pratiche che si stanno gradatamente abbandonando. Fortunatamente la ricerca ha permesso di ottenere prodotti isolati da matrici vegetali, come patata e pisello, e ottenere gli stessi risultati», spiega l’enologo Pietromarchi.

Senza solfiti aggiunti

Torniamo per un secondo ai solfiti per qualche precisazione. Perché sono visti di cattivo occhio? Per prima cosa, si tratta di composti che fanno parte degli allergeni, una classe di sostanze che può determinare, come suggerisce il termine, allergie o, in soggetti predisposti, reazioni di ipersensibilità: per questo in etichetta si usa la dicitura Contiene solfiti. Succede a un numero molto limitato di persone, complessivamente tra lo 0,05 e l’1%; i più colpiti, con una prevalenza tra il 3 e il 10%, i soggetti asmatici.

Per questo, oltre a limitarne l’impiego durante il processo di vinificazione, si trovano oggi in commercio anche vini che si dichiarano Senza solfiti aggiunti: ciò non significa – attenzione – che nella bottiglia non vi sia alcuna traccia di solfiti, bensì che non ne sono stati addizionati ulteriori rispetto a quelli che inevitabilmente (e naturalmente) si formano durante la fase di fermentazione.

Al momento, comunque, entro i limiti che i vini devono rispettare per l’immissione in commercio, la European Food Security Authority (EFSA) li considera sicuri. «Non sono i solfiti a dover fare paura», interviene Andrea Ghiselli, «come a volte accade, si tratta una percezione distorta del pericolo». Ciò che dovrebbe allarmare, secondo l’esperto, è semmai l’alcol.

«Le evidenze parlano chiaro: c’è un nesso tra il consumo di alcol – non solo quello del vino, ma anche l’etanolo di birra e distillati – e l’insorgenza di alcuni tumori». Alla testa e al collo, all’esofago, al fegato, al seno e al colon-retto, in primis (fonte: National Cancer Institute). «E più una persona ne consuma, regolarmente e in modo prolungato nel tempo, più il rischio sale. Come sottolineano anche le analisi più recenti», prosegue, «è bene prendere a riferimento le linee guida internazionali per un consumo consapevole e per contrastarne l’abuso». Lo dice, di fatto, anche il Codice Europeo Contro il Cancro.

Vino nutraceutico

Si chiama nutraceutica quella branca della scienza che indaga sulle potenziali proprietà medicali degli alimenti. Dal cacao al caffé, passando per lo zenzero e la curcuma, si vanno a ricercare nelle matrici complesse dei cibi molecole che si dimostrino efficaci nel trattamento e nella cura come veri e propri farmaci.

Cos’è dunque un nutraceutico (che va distinto dall’integratore alimentare)? Un alimento-farmaco, che porta benefici all’organismo. Cos’è il vino? Una bevanda alcolica che, priva di valore nutrizionale, non può essere considerata un alimento. «Nulla che contenga alcol può essere definito vantaggioso per la salute o nutraceutico e anzi», va avanti Ghiselli, «l’attribuzione di proprietà benefiche a una qualsiasi bevanda alcolica è vietata».

Per chi poi riservasse ancora dubbi sul caso del vino rosso legato a effetti anti-invecchiamento e anticancro per opera dell’”ingrediente” resveratrolo, ricordiamo che si tratta di una notizia già confutata da un po’.

Il vino senza vino

0% etanolo, 100% salute: siete pronti al vino “libero dall’alcol”, l’ultima delle tendenze? Perché no: al prossimo party potreste berne a volontà senza ubriacarvi né rischiare la patente, come se fosse aranciata. Peccato che, per legge, il vino possa essere definito tale solo quando ha un titolo alcolometrico di almeno otto gradi (unica eccezione, il moscato d’Asti, cui è concesso scendere fino a cinque-sei gradi).

Anche se è innegabile – per motivi salutistici, di mercato ma anche culturali – una tendenza dei produttori a realizzare anche linee di vini con un contenuto alcolico limitato, è probabile che chi vi sta versando del “vino senz’alcol” vi stia propinando semplicemente del succo d’uva. O, forse, neppure quello.

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