AMBIENTEIN EVIDENZA

Gli effetti del cambiamento climatico sul Grande Nord

Nonostante qualcuno sia ancora scettico, le prove del surriscaldamento globale ci sono, basta saperle cercare..

APPROFONDIMENTO – Il cambiamento climatico globale è una delle tematiche più popolari nel dibattito scientifico- ma anche sociale e politico- degli ultimi anni: non passa quasi giorno in cui non viene resa pubblica una notizia (uno studio, una dichiarazione di un politico, una news di cronaca) che sia in qualche modo ascrivibile a questo argomento, e ci basta una breve ricerca in internet per essere investiti da una marea di contenuti a riguardo; al contempo questo tema, e il modo in cui viene trattato, è sicuramente uno dei più interessanti da analizzare nell’ambito della comunicazione e divulgazione scientifica: infatti, a fronte di un pressoché totale accordo da parte della comunità scientifica sul fatto che sia effettivamente in atto un cambiamento climatico globale riconducibile a cause antropiche, nel mondo sono molte le persone (una fra tutte, l’attuale Presidente degli Stati Uniti, che ha recentemente disertato la discussione del G7 su questi temi) che si dichiarano scettiche nei confronti di tale tematica.

Lo scetticismo, in questo contesto, si può declinare in due scuole di pensiero principali: secondo la prima, semplicemente, il cambiamento climatico non è in atto. I fenomeni a cui stiamo assistendo farebbero dunque parte di normali variazioni di temperatura e precipitazioni (in termini di frequenza e abbondanza), che però si concretizzano a livello locale, equilibrandosi nel corso del tempo.
La seconda scuola di pensiero, invece, pur riconoscendo che è in atto una variazione del clima su scala globale, non ne attribuisce le cause all’azione dell’uomo. Secondo questa concezione, infatti, quella in atto è una trasformazione climatica del tutto naturale, comparabile ad esempio alle glaciazioni che hanno sconvolto per millenni la composizione floro-faunistica di gran parte del globo, nella quale le attività antropiche hanno un peso nullo, o quasi. Seguendo questa linea di pensiero, anche il gravissimo fenomeno della perdita di biodiversità, che ha portato diversi esperti a parlare di una vera e propria estinzione in atto (la sesta estinzione di massa che interessa la vita sul nostro pianeta) sarebbe qualcosa contro cui l’essere umano non può niente, e per la quale non ha colpe.

Tuttavia, così come i fossili degli animali preistorici oggi estinti hanno rappresentato e rappresentano una prova inconfutabile di quanto flora e fauna della Terra siano variate nel corso di milioni di anni (nonché della veridicità delle teorie evoluzionistiche) così è possibile trovare delle testimonianze del cambiamento climatico in corso. Basta saperle cercare…e dove cercarle se non nelle zone più fredde del nostro pianeta, in cui gli effetti dell’aumento di temperatura sono più evidenti?

Nel corso della spedizione 80° Parallelo, un affascinante viaggio alla scoperta del “Grande Nord” il fotografo naturalista Roberto Giancaterina ha potuto documentare come paesaggi millenari abbiano subito, negli ultimi decenni, profonde variazioni dovute appunto all’aumento delle temperature medie. Il primo esempio di questo, che è un vero e proprio rimodellamento, è dato dal lago Jökulsárlón, il più vasto bacino idrico di origine glaciale dell’Islanda. Il lago è situato a sud di un estesissimo ghiacciaio, il Vatnajökull, che copre una superficie di oltre 8000 km2 (all’incirca quanto l’intera Umbria, per avere un termine di paragone nostrano).

Roberto Giancaterina osserva il ghiacciaio Vatnajökull, il più esteso d’Islanda nonché il più grande, per volume, d’Europa. Dal 1995, tuttavia, il ghiacciaio ha un bilancio di massa negativo, cioè si osserva una riduzione del suo volume totale.

Tuttavia, una spedizione che avesse esplorato queste terre appena cento anni fa – un lasso di tempo microscopico sulla scala geologica- non avrebbe potuto documentare la presenza del lago: lo Jökulsárlón è comparso infatti per la prima volta all’inizio degli anni ‘30, per poi subire una rapida accelerazione, in termini di superficie e di profondità, a partire dalla seconda metà degli anni ’70.
Nel corso degli ultimi anni sono aumentati anche numero e dimensioni dei blocchi di ghiaccio che, staccatisi dal fronte del ghiacciaio (causando così una riduzione del bilancio di massa del Vatnajökull), giungono nei pressi della laguna glaciale, alimentandola a mano a mano che si sciolgono.

Sulla spiaggia dei diamanti è possibile osservare i blocchi di ghiaccio provenienti dal Vatnajökull; queste formazioni possono avere colori diversi: la scala di blu, ma anche bianco, giallo (a causa del solfuro, proveniente dai diversi vulcani attivi sotto la cappa del ghiacciaio) e nero (a causa della cenere).

Ma i ghiacciai, purtroppo, non sono l’unico elemento dei Paesi limitrofi Polo Nord a rischio scioglimento: anche il permafrost – lo strato di terreno che rimane congelato, a prescindere dall’alternarsi delle stagioni, per centinaia di migliaia di anni – sta infatti subendo, da alcuni anni, una lenta ma inesorabile erosione dovuta all’aumento delle temperature medie. Il permafrost, sottostante al cosiddetto strato attivo, è composto da rocce, terreno, sedimenti, strati di ghiaccio e resti di piante e animali che si sono congelati prima di andare incontro al fenomeno della decomposizione. Proprio questi residui organici sono alla base di un potenziale circolo vizioso legato allo scioglimento del permafrost: alcuni esperti hanno stimato che in questi detriti, a livello globale, siano intrappolate oltre 1.500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Nel momento in cui il permafrost che li contiene si scioglie, il gas viene così rilasciato nell’atmosfera, contribuendo in maniera significativa all’aumento della temperatura.

La spedizione di Giancaterina ha documentato quanto lo scioglimento del permafrost sia un fenomeno ormai avanzato presso le Isole Svalbard, un arcipelago appartenente alla Norvegia e situato nel mare Glaciale Artico, nonché in Islanda (nella foto più a destra, la carcassa del Douglas Super DC-3 della Marina statunitense, costretto nel 1973 ad un atterraggio di emergenza a Sólheimasandur).

Non tutto è perduto, e i margini per mitigare il surriscaldamento del nostro pianeta, seppure esigui, ci sono ancora. Ma il primo passo non può che essere la consapevolezza, a livello prima di tutto personale e poi collettivo, di quanto il fenomeno sia reale e impattante, per i paesaggi del Nord ma anche, e soprattutto, per l’uomo.

Segui Marcello Turconi su Twitter

Leggi anche: Tundra e dintorni: il cambiamento climatico per 4 animali iconici

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Condividi su
Marcello Turconi
Neuroscienziato votato alla divulgazione, strizzo l'occhio alla narrazione digitale di scienza e medicina.