Studiare l’olfatto con le locuste
Da piaga biblica a modello di studio il passo non è poi così lungo: lo sanno bene le locuste, modelli perfetti per indagare i meccanismi olfattivi.
SCOPERTE – Per le locuste, il salto da calamità biblica a strumento utile per l’avanzamento della conoscenza scientifica e medica potrebbe essere meno impegnativo del previsto. Almeno stando ai risultati di un recente studio statunitense, pubblicato sulla rivista Nature Communications.
Un gruppo di ricerca della Washington University di St. Louis ha infatti utilizzato il bistrattato insetto come modello animale per lo studio di un processo sensoriale e cognitivo molto complesso, che accomuna moltissime specie pur con evidenti differenze: l’olfatto.
Per millenni, a partire dai primi filosofi greci, l’uomo ha cercato di spiegare come un preciso elemento proveniente dall’ambiente circostante (un fiore, ad esempio) si possa trasformare in un’esperienza sensoriale ben definita (il profumo di quel fiore). Per decifrare il complesso codice che dà vita a profumi e odori, il primo passo è stato innanzitutto identificarne gli elementi fondamentali.
Capire, cioè, che i mattoni che costituiscono le costruzioni odorose – come le definiva Jean Baptiste Grenouille, celebre protagonista dell’iconico romanzo “Il profumo” di Patrick Süskind – sono delle molecole che, rilasciate dall’oggetto in questione – il fiore- vengono captate dal naso, dove vanno a colpire un sottile strato di cellule chiamato epitelio olfattivo. L’epitelio olfattivo è formato da neuroni altamente differenziati che iniziano l’opera di traduzione del messaggio chimico, portato dalle molecole del fiore, nell’esperienza del profumo.
Trasmettere il segnale odoroso
Negli ultimi decenni molti gruppi di ricerca hanno impegnato tempo e risorse per descrivere i passi successivi del processo di percezione olfattiva: fondamentalmente i milioni di recettori olfattivi si raggruppano in strutture chiamate glomeruli olfattivi, che poi proiettano nel bulbo olfattivo, un’importante stazione di elaborazione del segnale, ricca di interneuroni e cellule neurali di supporto.
Da lì, il segnale odoroso procede verso un’area della corteccia cerebrale che comprende la corteccia piriforme e la corteccia entorinale, una formazione dell’ippocampo. La corteccia piriforme manda le informazioni al talamo e ad aree associative della neocorteccia per la percezione cosciente dell’odore. La corteccia entorinale parla invece alle strutture limitrofe dell’ippocampo, legate alla memoria degli odori. Vengono infine attivati anche ipotalamo e amigdala, importanti per la percezione emozionale dell’odore.
Questa intricata catena di trasduzione del segnale, che prevede l’associazione tra un odore e l’attivazione (singola o ripetuta) di un set specifico di neuroni, in una sorta di codice Morse delle fragranze, sembra ora destinata a complicarsi ulteriormente. Secondo il team del professor Raman, infatti, questa descrizione non tiene conto dell’elevata variabilità presente nel mondo reale.
Dal naso alla locusta
Gli studiosi hanno quindi deciso di mimare questa complessità, cercando di capire cosa succede quando gli odori vengono presentati in sequenza e non singolarmente. E l’hanno fatto con le locuste, addestrandole a riconoscere degli odori specifici: in particolare, i ricercatori rilasciavano nell’aria un odore (esanolo) per poi sfamare le locuste con dell’erba.
Dopo poche ripetizioni di questa routine – di solito sei – le locuste mostravano in risposta all’esanolo un comportamento specifico, anticipatorio rispetto alla distribuzione di erba: dischiudevano infatti i palpi, organelli posti all’esterno delle bocche e simili, per funzionalità, alle labbra e alla lingua dell’essere umano.
A questo punto le locuste erano addestrate e il test vero e proprio poteva iniziare. Gli insetti erano quindi esposti all’odore bersaglio (l’esanolo), che veniva rilasciato o da solo, o dopo un’altra fragranza, che fungeva da distrazione. I ricercatori hanno potuto così osservare che quando l’odore bersaglio era erogato da solo, l’attività neurale della locusta era sempre la stessa.
Quando invece prima venivano erogati degli odori come distrazione, i neuroni rispondevano alla presenza dell’esanolo secondo sequenze di attivazione diverse. La variabilità del contesto – quindi, di ciò che ho annusato prima – influisce sulla percezione dell’odore che sto avendo ora.
Aspetto fondamentale di questa osservazione era, tuttavia, che questa influenza non era così forte da non permettere il riconoscimento dell’odore bersaglio: anche in presenza delle distrazioni le locuste schiudevano i palpi, mostrando di aver riconosciuto la fragranza su cui erano state addestrate.
Organismi modello per studiare l’olfatto
“Le regole per questa sorta di riconoscimento condizionato sono molto semplici – spiega Raman – e si basano su operazioni logiche del tipo E/O. C’è un’attivazione neurale fissa in caso di stimolo odoroso singolo, quando invece c’è una sequenza di odori avremo attivazioni diverse: ci sarà sempre, però, un sottogruppo di neuroni che si attiverà sempre, e grazie a una sorta di flessibilità di interpretazione la locusta riesce a riconoscere comunque l’odore di interesse, classificandolo nel modo corretto”.
Ora l’obiettivo dei ricercatori sarà espandere la conoscenza dei meccanismi olfattivi ad altre specie: innanzitutto a Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta, modello animale molto più consistente rispetto alla locusta. Poi all’essere umano. Scoprire come elaboriamo gli odori, come li combiniamo e come ne siamo condizionati è infatti uno dei campi più affascinanti, e tuttora inesplorati, della ricerca scientifica in ambito sensoriale.
Perché, come scrive Patrick Süskind, “gli uomini possono chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non possono sottrarsi al profumo. Poiché il profumo è fratello del respiro. Con esso penetrava gli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere”.
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