SALUTE

Screening preventivi, in Italia si fanno ancora troppo poco

Se la diagnosi è precoce, la prognosi è spesso positiva. Eppure i tassi di adesione agli screening preventivi in Italia non salgono, mentre le diagnosi sono sempre di più.

SALUTE – Dal 2009 a oggi, in Italia, non ci sono stati passi in avanti importanti sulla prevenzione dei tumori attraverso i programmi di screening. Eppure è a tutti gli effetti la prima forma di cura. Va comunicato di più e va comunicato meglio, ma come riuscirci?

Crediti immagine: Pixabay

Il tumore alla mammella

Oggi fra le donne il tumore alla mammella è al primo posto per mortalità in ambito oncologico, in tutte le fasce di età. Un terzo delle donne morte di cancro sotto i 50 anni deve dare la colpa a questo tumore, così come un quarto di quelle dai 50 ai 69 anni. Il cancro al colon-retto è invece al terzo posto fra le under 70 e al secondo fra le più anziane, mentre il tumore all’utero è al quarto posto come mortalità fra le donne più giovani.

Considerando l’intera popolazione, ed escludendo i carcinomi della cute, le sedi tumorali più frequenti sono appunto la mammella e il colon-retto (entrambi con il 14% dei tumori, cioè una diagnosi su sette).

Al tempo stesso l’87% delle donne è viva a cinque anni dalla diagnosi di tumore mammario, e il 70% a 5 anni da una diagnosi di tumore alla cervice uterina o al colon-retto. Complessivamente le donne hanno una sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi per qualsiasi tipo di tumore del 63%, migliore rispetto a quella degli uomini (54%), e in gran parte questa differenza è legata al fatto che nelle donne il tumore più frequente è quello appunto della mammella, caratterizzato, se preso per tempo, da una buona possibilità di totale guarigione.

Che cosa significa tutto questo? Che una volta individuato il problema, la prognosi è nella maggior parte dei casi positiva. Eppure, nonostante le evidenze rimarchino ogni anno che una diagnosi precoce fa la differenza, solo la metà delle donne invitate gratuitamente a sottoporsi a screening si presenta.

Secondo gli ultimissimi dati dell’Osservatorio Nazionale Screening solo il 56% delle donne invitate ha aderito allo screening, e la percentuale più bassa è fra le più “giovani”, cioè le 50-54 enni.

L’importanza delle mammografie

La notizia più triste è che dal 2010 a oggi le cose non sono migliorate, anzi nel complesso sono addirittura peggiorate e il gradiente Nord-Sud è evidente, come si ripete da anni: nel 2016 nel settentrione si presentato allo screening il 64% delle invitate, nel meridione il 42%.

Ci “ravvediamo” e ci sottoponiamo a visite al seno al di fuori dallo screening? Dipende. Stando ai dati della sorveglianza PASSI dell’ISS, che raccoglie i dati sulle donne che si sono sottoposte a mammografia negli ultimi due anni, lo fanno solo due donne su 10, verosimilmente in conseguenza di qualche sintomo.

E il Pap test?

Se l’incidenza del tumore alla mammella non è in calo, lo è quella dei carcinomi del colon-retto e della cervice uterina, patologie per le quali i test di screening hanno la finalità di individuare lesioni premaligne che possono poi essere asportate evitando lo sviluppo successivo della patologia neoplastica. Tramite il pap-test, l’HPV test e l’analisi delle feci si può non solo individuare ma evitare il tumore.

Eppure, un trend negativo analogo si riscontra anche nell’adesione delle donne al Pap-test per la diagnosi precoce del cancro alla cervice uterina e per entrambi i sessi per lo screening al colon-retto.

Dal 2009 al 2016 i tassi di adesione al Pap test sono rimasti gli stessi: bassissimi. Solo quattro donne su 10 invitate si sono sottoposte alla visita, con percentuali che non arrivano al 30% fra le donne del Sud. Ma soprattutto colpisce il fatto che siano le più giovani a sottoporsi meno al test. Anche qui, alcune donne eseguono il Pap test al di fuori dello screening, magari in occasione di quella che dovrebbe essere l’annuale visita ginecologica, ma non tutte: nell’insieme la Sorveglianza PASSI stima che solo sette donne su 10 fra le aventi diritto hanno eseguito l’esame negli ultimi due anni.

Molto ampio è anche il gap fra la percentuale di donne invitate a fare il test HPV come esame primario al posto del Pap-test: il 32% al Nord, il 24% nelle regioni del centro e appena il 9% a Sud. Si tratta di un esame che si esegue allo stesso modo del Pap test, ma ha una sensibilità maggiore rispetto a quest’ultimo nel predire la possibilità di sviluppo di lesioni che potrebbero evolversi in tumori, anche se al tempo stesso è meno specifico, cioè identifica anche infezioni che potrebbero regredire spontaneamente.

Si consiglia di riservare l’HPV test alle donne con più di 30 anni, poiché prima di questa età le infezioni da HPV sono molto più frequenti, ma regrediscono spontaneamente nella maggior parte dei casi. Va precisato tuttavia che il test HPV prevede un intervallo quinquennale rispetto al pap test che ne prevedeva uno triennale: dunque tendenzialmente si hanno meno inviti e meno esami ogni anno.

Lo screening colorettale

La ricerca del sangue occulto nelle feci (in sigla SOF) viene consigliata dal Ministero della Salute ogni due anni nelle persone tra i 50 e i 69 anni. Se la SOF rileva la presenza di sangue occulto, il protocollo invita a sottoporsi a una colonscopia.

Anche riguardo all’adesione allo screening colorettale, tuttavia, negli ultimi dieci anni sono calate le percentuali di persone che hanno accettato l’invito: siamo passati dal 46% al 40% (fra le donne al 43%). Qui il gap Nord-Sud è il più ampio fra i tre screening: si passa dal 51% del Nord al 25% del meridione.

A sud, tra il 2009 e il 2016, le percentuali di adesione sono addirittura diminuite, anche se il calo più drastico si è registrato nelle regioni del centro. Ma soprattutto nel caso dello screening colorettale, sono poche le persone che non si sottopongono a screening ma eseguono comunque l’esame al di fuori: meno di una su dieci.

In numero assoluto nel 2016 sono stati spediti quasi 13 milioni di inviti ma i test eseguiti sono stati poco meno di sei milioni, più o meno gli stessi numeri del 2015. Nel 2016 più dell’80% della popolazione italiana in età target per lo screening mammografico e per quello cervicale viene regolarmente invitata, e quasi il 75% lo è per lo screening colorettale.

Attività spontanea e sistema privato

Importante, come sottolinea nel rapporto Marco Zappa – direttore dell’Osservatorio nazionale screening, è la sfida con la pratica spontanea e il confronto con il sistema assicurativo privato, che non rispetta gli intervalli e le fasce d’età individuati come ottimali. “In alcune aree del Paese e in piccola parte – spiega Zappa – l’attività spontanea può supplire alle carenze di quella organizzata, ma siamo sempre più convinti che rappresenti soprattutto un ostacolo, specie in una situazione di risorse limitate”.

“Recentemente stiamo assistendo a un fenomeno che potrebbe avere riflessi importanti e non positivi anche per i programmi di screening. Si stanno sempre più sviluppando contratti integrativi di lavoro (il cosiddetto welfare aziendale) che offrono, fra le altre cose, test preventivi oncologici. Una volta questo tipo di previdenza integrativa era propria di alcune limitate categorie professionali – giornalisti, dirigenti di azienda etc-.  Oggi si va allargando ad altri settori molto più numerosi, per esempio il settore metalmeccanico.

Senza voler entrare in un dibattito complesso, ci sembra negativa questa offerta di test preventivi slegati da un percorso monitorato. Rischia di aumentare solo il consumismo sanitario senza un’adeguata valutazione dei risultati.”

Sarà importante da parte del mondo dello screening sviluppare un confronto con il mondo sindacale e imprenditoriale per discutere questa offerta.

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Leggi anche: Screening mammografico: il dibattito senza fine

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.