Storia dell’immigrazione straniera in Italia
Il volume, scritto da Michele Colucci per Carocci editore, racconta un fenomeno non recente e con caratteristiche uniche.
L’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Issm) ha recentemente pubblicato “Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni”, un volume, edito da Carocci, che ricostruisce per la prima volta la storia dell’immigrazione straniera in Italia.
Si tratta di un’opera di ricostruzione storica che mette a fuoco non solo la dimensione del fenomeno ma anche la sua controversa evoluzione. L’immigrazione in Italia, infatti, non è un fenomeno recente e presenta caratteristiche uniche. Come la pluralità eccezionale delle provenienze, una maggiore – seppur di poco – presenza di donne rispetto agli uomini, la diffusione articolata sul territorio e nei comparti produttivi.
Secondo lo studio del Cnr-Issm è possibile suddividere la storia dell’immigrazione straniera in Italia in quattro grandi stagioni. La prima ha inizio nell’immediato dopoguerra e perdura fino alla fine degli anni Sessanta. La seconda avviene quando, dagli anni settanta al 1989, i flussi di lavoratori e lavoratrici diventano consistenti. La terza, dal 1989 alla crisi economica del 2008, è caratterizzata dall’apertura delle frontiere a est e dall’irruzione del tema nel dibattito politico.
La quarta e ultima stagione è quella che coincide con il decennio successivo al 2008, tra le difficoltà dovute alla crisi economica e l’influenza dei conflitti in area mediterranea e mediorientale nel dettare i nuovi movimenti migratori diretti in Italia. A inizio 2018 gli stranieri presenti sul territorio italiano erano 5 milioni e 68mila, un numero complessivo che è il risultato di innumerevoli vicende avvenute nel corso di più di settant’anni di storia italiana e non solo, e che è bene conoscere per comprendere e contribuire al dibattito attuale.
Nell’immaginario comune, il fenomeno migratorio in Italia sembra circoscritto agli ultimi 35 anni, In realtà, la sua storia è ben più lunga. L’impressione è che nelle sue prime fasi il fenomeno agisse sottotraccia, avanzando gradualmente e in maniera frammentata per poi giungere all’attenzione solo nel momento in cui aveva raggiunto dimensioni impossibili da ignorare. Le migrazioni nei primi decenni dopo il secondo dopoguerra che caratteristiche avevano?
«Direi che questa visione dell’avanzamento “sottotraccia” corrisponda sostanzialmente con quanto ho cercato di ricostruire», afferma l’autore della pubblicazione, il ricercatore del Cnr-Ismm Michele Colucci. «Il primo rapporto del Censis, datato 1979, restituisce una cifra orientativa di circa mezzo milione di stranieri e possiamo stabilire proprio il periodo tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta come spartiacque: sono gli anni in cui si inizia a parlare in modo più diffuso e articolato di immigrazione. Tornando indietro, ai primi anni dopo la fine della guerra e alla ricostruzione, non dobbiamo dimenticare i flussi legati ai profughi, alla decolonizzazione e più in generale agli esiti della seconda guerra mondiale. Si trattava per lo più di movimenti transitori, che hanno però segnato in modo forte le modalità di risposta da parte delle istituzioni statali».
Negli anni ’60 si è diffusa la pratica dell’acquisto del cognome da parte di quei figli del colonialismo italiano. Da subito erano emerse enormi controversie per il riconoscimento della cittadinanza agli italo-somali, italo-etiopi e italo-eritrei della doppia cittadinanza. La vicenda è complessa ma potrebbe mettere in luce una prima disattenzione italiana nel trattare le migrazioni. Il riconoscimento della cittadinanza ai figli del colonialismo è un passaggio mancato per l’Italia?
«La questione è legata più in generale alle modalità con cui sono stati affrontati tutti i temi legati alla decolonizzazione. I flussi migratori provenienti dalle ex zone coloniali sono già durante la seconda guerra mondiale articolati e differenziati, successivamente crescono e si sviluppano costruendo un canale strutturale che presenta una lunghissima continuità, che arriva fino ai nostri giorni, quando assistiamo a nuovi arrivi di persone provenienti da Somalia, Eritrea ed Etiopia.
La classe dirigente italiana, in modo trasversale alle forze politiche, ha scelto prima di rivendicare la possibilità di un controllo sulle colonie, poi ha stigmatizzato gli accordi internazionali che hanno bocciato questa opzione e in seguito ha continuato di fatto a lamentarsi, con poche eccezioni, per la perdita dei possedimenti. Le migrazioni sul territorio italiano legate alla fine del colonialismo non facevano che rendere evidenti e palesi le contraddizioni in campo coloniale dell’Italia repubblicana. Le discriminazioni subite dai protagonisti di questi flussi sono state fin da subito numerose, sia sul piano del diritto sia a livello sociale».
Esiste un “momento” in cui è emerso un sentimento negativo nei confronti dell’immigrato? Le prime manifestazioni di intolleranza risalgono alle prime fasi o sono emerse più tardi?
«Non è possibile a mio avviso incanalare i fenomeni di intolleranza all’interno di un percorso storico compiuto e razionale. Si tratta di sentimenti e pratiche che hanno origine in contesti differenti. Sicuramente possiamo dire che episodi di razzismo vero e proprio si sono manifestati fin dalle prime fasi di sviluppo dell’immigrazione straniera e non è un caso che le vittime di tali episodi avessero un legame con l’eredità coloniale. Nel 1979 a Roma viene ucciso il profugo somalo Ahmed Ali Jama, bruciato vivo di fronte a una chiesa. Nel 1985 viene ucciso dai compagni di scuola Giacomo Valent, figlio di un uomo italiano e di una donna somala. Certo si tratta di episodi singoli, che però colpiscono per la loro efferatezza.
È difficile capire se e quando da episodi singoli si passa a una vera e propria campagna di massa. Ciò che possono fare gli studiosi di storia è ricostruire le origini, le modalità e le conseguenze delle pratiche razziste, anche quelle organizzate in modo più violento, quali ad esempio le vicenda della Uno Bianca. A fianco a questo però occorre tenere sempre a mente la ricchezza e la varietà dei percorsi di socializzazione, di condivisione e di relazione perché altrimenti si rischia di immaginare una storia schiacciata solo sulla dimensione della sopraffazione».
Come si può spiegare questa disattenzione dei governi italiani nell’affrontare da subito il fenomeno migratorio? Come si giustifica la tendenza delle istituzioni a gestire il fenomeno con periodiche sanatorie? C’è mai stato un momento, in passato, in cui si è tentato di gestire l’immigrazione in maniera sistematica?
«In generale credo che sia molto presente e molto evidente l’incapacità di comprendere la dimensione strutturale dei fenomeni migratori e la conseguente necessità di costruire percorsi legislativi capaci di superare un approccio meramente emergenziale. Le sanatorie hanno rappresentato per molto tempo questo paradosso: nessuno ha il coraggio di riconoscere che l’Italia è compiutamente un paese di immigrazione però gli immigrati arrivano e si inseriscono, anche se in modo precario, nel mercato del lavoro. Periodicamente occorre quindi regolarizzare tale presenza, anzi negli ultimi anni le istituzioni non riescono più a concepire neanche questa forma di regolarizzazione.
Formalmente la legislazione italiana a partire dal Testo Unico del 1998 prevede la possibilità di attivare anno per anno una programmazione dei flussi che permetta di soddisfare le esigenze del mercato del lavoro, avviando parallelamente accordi bilaterali con i paesi interessati a fornire manodopera all’Italia immaginando anche percorsi di formazione precedenti la partenza degli emigranti. Di fatto però questa opzione si è scontrata con le posizioni spesso inconciliabili degli attori in campo, a partire dai partiti politici, preoccupati di non mostrarsi in alcuno modo “aperturisti” verso i flussi di immigrazione.
Inoltre, i flussi annuali hanno spesso funzionato come “sanatoria” di fatto in mancanza di altri provvedimenti di regolarizzazione. Diciamo che poi la crisi economica del 2008 e la successiva stagione dei conflitti legati alle nuove guerre e alle nuove migrazioni mediterranee hanno ulteriormente reso difficile nel dibattito pubblico la possibilità di rivendicare uno spazio per le politiche migratorie legate al lavoro».
Uno dei dati che colpiscono di più riguarda la prevalenza di donne tra gli stranieri presenti in Italia, nonostante una delle frasi ricorrenti sia che qui “arrivano solo gli uomini”. Come si spiega?
«Anche se negli ultimi anni si potrebbe notare una piccola inversione di tendenza, i dati ci mostrano in modo inequivocabile che le donne straniere sono leggermente più degli uomini stranieri: circa due milioni e 670mila contro circa due milioni e 470mila al 1 gennaio 2018, secondo i dati ISTAT. Direi che non si tratta di una predominanza femminile ma di una situazione di sostanziale equilibrio di genere, che d’altra parte è in linea con le tendenze demografiche più generali, anche al di là dell’immigrazione. Dentro questo dato naturalmente convivono esperienze, storie, generazioni, percorsi diversissimi tra loro».
Che evoluzione potrà avere, nei prossimi decenni, la società italiana nel suo rapporto con gli stranieri presenti sul territorio? Il numero di immigrati aumenterà ancora? L’Italia è un paese attraente dove emigrare?
«Le indicazioni sui flussi più recenti ci restituiscono in realtà un andamento che non prevede un aumento costante, anzi l’aumento dell’immigrazione straniera è sensibilmente diminuito dopo la stagione della crisi economica internazionale. Nel 2010 in Italia venivano rilasciati 598.567 permessi di soggiorno a cittadini non comunitari, nel 2016 la cifra è scesa a 226.934. Emigrare in Europa negli ultimi anni è diventato più difficile che in passato e l’Italia risente di tale tendenza.
Naturalmente un ruolo importante è rivestito dalle politiche, che sono diventate sempre più rigide e chiuse alla mobilità internazionale. L’Italia forse è un paese meno attraente che in passato ma resta comunque una grande potenza economica internazionale e questo aspetto va tenuto presente quando guardiamo allo scenario globale dei flussi migratori».
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