First Man: il primo uomo sulla Luna
L'atteso film di Damien Chazelle racconta il periodo decisivo della vita di Neil Armstrong. Il primo a calpestare il suolo lunare.
Il 12 aprile del 1961 Jurij Alekseevič Gagarin è il primo essere umano a volare nello spazio a bordo della Vostok 1 e dichiarava che “da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini”. In realtà, il mondo è più diviso che mai dalla Guerra Fredda. Da una parte i sovietici, dall’altra gli americani che masticano amaro: i capitalisti stanno perdendo la corsa allo spazio, mentre i comunisti hanno già mandato in orbita lo Sputnik e la cagnetta Laika. Non che non ci stiano provando, gli americani, ma le cose non vanno come previsto, con difficoltà tecniche che paiono insormontabili, anche se non intaccano la fiducia della NASA.
Proprio nel 1961 incontriamo per la prima volta Neil Armostrong (Ryan Gosling) mentre sta eseguendo un volo parabolico con l’X-15. È uno dei velivoli sperimentali che sono serviti per studiare come attraversare l’atmosfera e sfuggire alla gravità terrestre. Armstrong raggiunge i 68 chilometri di quota, ma il rientro non va liscio come dovrebbe e tutto l’aereo grida e vibra, come poi farà qualche anno più tardi, la navicella appollaiata sul Saturno V in volo verso l’ultima frontiera. Tra questi due momenti è racchiuso quasi tutto First Man, il nuovo film di Damien Chazelle, tratto dall’unica biografia autorizzata di Armstrong e presentato alla 75a Mostra del Cinema di Venezia.
Una vicenda umana, molto umana
Come raccontare una storia che è stata raccontata all’infinito? Come declinare ancora una volta il mito epico, senza risultare banale? Per riuscire in un compito apparentemente impossibile, Chazelle fa due scelte fondamentali. La prima è lasciare che i rumori e i suoni siano protagonisti. Le vibrazioni dei vari veicoli che Armstrong pilota, le sirene degli allarmi, i boati dei razzi e, soprattutto, i silenzi dello spazio costruiscono un’ossatura sonora su cui si dipanano le vicende dei protagonisti. Quasi a proseguire il cinema-musicale del suo film precedente (La la land, con lo stesso Gosling).
La seconda scelta decisiva è quella di concentrare la vicenda sui personaggi. Si tralasciano quasi del tutto le vicende politiche, le contestazioni (accennate però in una scena molto bella, dove appaiono gli unici personaggi neri, intenti a protestare contro “whitey on the Moon”) e anche tutta la società civile americana. Vengono lasciati fuori, in favore di un racconto minimo, per certi tratti quasi rurale, di un’America che, come ricorda lo stesso Armstrong nel film, aveva tutto sommato imparato a volare solo da una sessantina d’anni: come pretendere che andasse tutto liscio come l’olio?
Due funerali e un successo
Motore immobile del primo atto del film, quello in cui Armstrong passa dall’aviazione civile al programma della NASA, è la sofferenza e la scomparsa della piccola Karen, la figlia amata e uccisa a soli due anni da un tumore. Al funerale c’è una rara manifestazione di emozione del futuro astronauta, mentre la moglie Janet (Claire Foy, vista in The Crown) cerca di tenere insieme la famiglia. Da questo momento, parole proprio di Janet, lo spostamento a Houston per il programma Gemini sarà “una grande avventura”.
Tinta nuovamente di dolare quando un’altro funerale, quello dei tre uomini a bordo del Gemini 5 morti in un incendio sulla rampa di lancio, sembra essere il colpo che fa scendere il palcoscenico sul programma lunare a stelle e strisce.
Le tragedie sono raccontate più dalla trasformazione dei dialoghi tra moglie e marito, sempre più rari e secchi, come di una rift valley che sembra insinuarsi tra i due: lui con la testa sempre più tra le nuvole, stolidamente convinto della propria missione; lei sempre più con i piedi a terra, ma entrambi impegnati a gestire l’indicibile (memorabile, in questo, la scena in cui Armstrong annuncia agli altri figli che dal volo verso la Luna potrebbe non fare ritorno). E lo stesso avviene per il successo finale, che lascia sempre più spazio al silenzio lunare, come a quello dei personaggi.
Al netto di alcune scene strappalacrime che potevano essere tranquillamente evitate senza nulla togliere alla bontà della pellicola, First Man ha il pregio non banale di farti guardare ancora una volta alla Luna con gli occhi di chi era mosso da una voglia irresistibile di metterci il piede. Ma senza la retorica roboante, senza l’epica stracciona di altre pellicole a tema spaziale e invece ha il sapore quasi casalingo, proprio come l’America degli anni Sessanta.
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