Dickinsonia, l’animale più antico del mondo
L'analisi dei fossili di Dickinsonia, un rappresentate del biota di Ediacara, ha rivelato la presenza di steroli animali, dimostrando che il record fossile della vita animale è più antico del Cambriano.
In occasione delle feste abbiamo pensato di occuparci di alcune scoperte interessanti pubblicate nel 2018 delle quali non avevamo ancora parlato. Continua con la paleontologia la nostra rassegna con queste scoperte e innovazioni scientifiche che avevamo “dimenticato”: ne abbiamo scelte 10.
RICERCA – Tra il Proterozoico superiore (635-541 milioni di anni fa) e il Fanerozoico, l’intervallo della vita visibile che si estende fino all’attuale (iniziato 541 milioni di anni fa), sono comparse forme di vita complesse. Si trattava di organismi che abitavano le acque marine basse, di dimensioni che raggiungevano anche il metro e mezzo di lunghezza e molto diversificati, rappresentanti probabilmente di gruppi polifiletici. Il nome con cui sono più noti è “biota di Ediacara“, e le loro testimonianze fossili sono state ritrovate un po’ ovunque nel mondo, dall’Australia (i ritrovamenti sulle colline di Ediacara, nella regione meridionale del Paese, hanno battezzato i fossili) al Messico, dal Canada alla Russia.
Sembra che non abbiano lasciato discendenti: sono svaniti prima dell’esplosione del Cambriano, circa 530 milioni di anni fa, quando compaiono i phyla di animali complessi e con parti mineralizzate cui appartengono anche quelli attuali. Per i paleontologi hanno a lungo costituito una sfida: come vanno posizionati nell’albero evolutivo? Si trattava di licheni, alghe, amebe giganti? O li si può considerare i primi esperimenti di vita animale? A settembre, uno studio pubblicato sulla rivista Science ha dimostrato che Dickinsonia, un organismo emblematico del biota di Ediacara e risalente a 558 milioni di anni fa, conteneva steroli animali, composti lipidici presenti nella membrana cellulare degli eucarioti. I primi animali non sono dunque comparsi nel Cambriano bensì più di 20 milioni di anni prima; Dickinsonia ne è il rappresentate più antico, o almeno il più antico di cui siano rimaste tracce fossili.
I fossili misteriosi
La difficoltà di classificare il biota di Ediacara è stata una sfida per i paleontologi per oltre 75 anni. La loro biodiversità è tutto sommato scarsa (si stima esistessero un centinaio di specie) rispetto ai 35 milioni di anni di storia evolutiva e l’ampia distribuzione, ma i resti trovati mostrano una grande varietà morfologica. I fossili di Dickinsonia, il genere più rappresentativo e di cui sono note cinque diverse specie, sono la traccia di un organismo di forma ovale, in grado di raggiungere il metro e mezzo di lunghezza, con una struttura frattale formata da solchi disposti intorno a un elemento centrale che potrebbe farci pensare alle foglie di alcune piante attuali. Si trattava, inoltre, di un organismo sottilissimo: l’area superficiale era enorme rispetto al biovolume, per cui lo spazio per lo sviluppo di organi era estremamente limitato. Questi elementi, uniti alla mancanza di una chiara differenziazione dorso-ventrale e capo-coda, non permetteva di attribuire con certezza Dickinsonia al regno animale.
Lo studio pubblicato su Science ha permesso di risolvere i dubbi grazie all’analisi dei biomarker chiamati a volte “fossili molecolari”, composti organici complessi che contengono lo scheletro carbonioso, ossia la disposizione e numero di atomi di carbonio della molecola originaria da cui provengono. Studiando quelli di Dickinsonia, il team di ricercatori australiani, russi e tedeschi ha scoperto una netta prevalenza di steroli animali (le ricerche su un altro organismo di Ediacara, Andiva, non hanno invece portato a risultati certi).
I “fossili molecolari” per lo studio del passato
“Lo studio dei biomarker in paleontologia è estremamente interessante e molto difficile da perseguire”, commenta Lucia Angiolini, presidentessa della Società Paleontologica Italiana e professoressa di Paleontologia e Paleoecologia all’Università di Milano. Innanzitutto, bisogna trovarli, come spiega Ilya Bobrovskiy, primo autore dello studio e dottorando all’Australian National University, in un comunicato. «La maggior parte delle rocce contenti questi fossili, come ad esempio quelle delle colline di Ediacara, sono state sottoposte a una gran quantità di calore e di pressione e ne sono rimaste segnate. E sono quelli i fossili studiati per decenni dai paleontologi, il che spiega come mai erano ancora bloccati sulla questione della vera identità di Dickinsonia». Ma la perseveranza dei ricercatori li ha portati nelle regioni di Lyamtsa e Zimnie Gory, in Russia, su una scogliera alta fino a cento metri affacciata sul Mar Bianco. Ed è in quell’area remota che hanno rinvenuto fossili particolarmente ben conservati, su cui è stato possibile condurre le analisi dei biomarker che hanno permesso di assegnare quell’emblematico organismo al regno animale.
“Nel Cambriano sono comparsi di colpo moltissimi animali che producevano le parti scheletriche, le quali, ovviamente, aiutano molto la conservazione. Al contrario, il biota di Ediacara raccoglie organismi a corpo molle”, continua Angiolini. “I fossili trovati sono infatti in iporilievo negativo, ossia impressioni concave alla base degli strati: non avendo uno scheletro di sostegno, questi organismi hanno subito una forte compressione durante i processi di fossil-diagenesi. I resti si sono potuti conservare sia perché sono rimasti sepolti subito dopo la morte dell’animale o addirittura quando era ancora in vita, sia perché nell’Ediacarano (l’ultimo periodo del Proterozoico, che prende il nome proprio dal biota di Ediacara) non vi erano organismi che vivevano all’interno dei sedimenti e li elaboravano, spostando i resti e portando ossigeno anche in profondità, rendendo così difficile la conservazione, in particolare delle parti molli”.
Ma un’altra grande difficoltà nell’analisi dei fossili molecolari è rappresentata dalla contaminazione, perché le tracce organiche sono disseminate nei sedimenti e riflettono tutte le comunità biologiche che vivevano in quell’ambiente; possono dunque non essere univoche. “Gli autori dello studio hanno compiuto un lavoro molto dettagliato ed esaustivo: oltre a campionare il sottile film di idrocarburi che segue la traccia di Dickinsonia, hanno analizzato anche i campioni sovra- e sottostanti la traccia fossile, in modo da poterli confrontare”, spiega Angiolini. “Il segnale trovato è molto forte: oltre il 90 per cento dei biomarker di Dickinsonia è di steroli tipici del regno animale. Le alghe, ad esempio, sono caratterizzate da steroli diversi, gli stigmasteroli; i batteri dagli opanoidi, i licheni dagli ergosteroli”.
“Un altro problema presentato dallo studio dei fossili molecolari è che richiedono analisi nella scala dei nanogrammi e quindi l’utilizzo di strumenti ben precisi come i gas cromatografi con spettrometri di massa. Nella comune analisi paleontologica, il resto ritrovato può essere descritto, identificato e contestualizzato per analisi biostratigrafiche, biocronologiche, filogenetiche, paleoecologiche e palebiogeografiche; qui invece si sconfina nell’ambito geochimico e biochimico, ed è quindi necessario lavorare in team multidisciplinari. Finora, infatti, questi studi sono rimasti casi isolati e concentrati su resti eccezionali. Tuttavia, come dimostra anche il lavoro di Bobrovskiy e dei suoi colleghi, le potenzialità di questo tipo di ricerche sono enormi”, conclude Angiolini.
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