La rivoluzione delle mini-placente
Un organoide di placenta consentirà di studiare le prime fasi della gravidanza ed eventi come aborti, preeclampsia, ritardo di crescita fetale. È solo l’ultimo esempio della ricerca molto attiva intorno alla placenta.
Mini-cervelli, mini-polmoni, mini-intestini, mini-reni: sono gli organoidi, agglomerati tridimensionali di cellule che mimano struttura e funzione di un organo, già da alcuni anni grandi protagonisti della ricerca come evoluzione delle colture cellulari tradizionali, in due dimensioni. E ora il club degli organoidi si arricchisce di un elemento in più: la mini-placenta, un piccolo modello 3D dell’organo fondamentale della gravidanza.
A metterne a punto la versione più sofisticata, caratterizzata da stabilità a lungo termine e presentata lo scorso novembre sulla rivista Nature, è stato un gruppo di ricercatori coordinati da Ashley Moffett e Graham Burton del Centro per lo studio del trofoblasto dell’Università di Cambridge, ma pochi mesi prima anche un’équipe viennese aveva annunciato un suo primo organoide di placenta. Il mondo della ricerca ha salutato la novità con grande entusiasmo, parlando di conquista fantastica, svolta emozionante, tecnica brillante (dichiarazioni rilasciate al Science Media Centre inglese dopo la pubblicazione del lavoro di Moffett e colleghi.). Non c’è da sorprendersi.
L’importanza della placenta
Fino a pochissimi decenni fa la placenta era un organo negletto: considerata mero supporto nutrizionale per il feto, veniva gettata via velocemente dopo il parto e nessuno pensava di farne un oggetto di studio. “Oggi le cose sono molto cambiate” afferma la ricercatrice Chiara Mandò, a capo del Laboratorio di ricerca traslazionale materno-fetale dell’Università di Milano ed esperta proprio di biologia della placenta. “Ora sappiamo che si tratta di un’entità più che mai attiva della gravidanza, un terzo attore fondamentale, insieme a mamma e feto, per il successo della gravidanza stessa ma anche per la salute del feto, del bambino e dell’adulto che quel bambino diventerà”.
È il nuovissimo ambito di studi della programmazione fetale, secondo la quale le basi della salute – o della mancanza di salute e predisposizione a malattie, in particolare cardiovascolari e metaboliche – di un individuo vengono gettate durante la vita in utero. Studiare la placenta è diventato importantissimo per capire la fisiologia della gravidanza, i meccanismi alla base di eventuali eventi avversi o complicazioni come aborti spontanei, preeclampsia o ritardo di crescita fetale, i determinanti della salute. Per farlo, però, servono modelli adeguati ed è qui che sorgono i problemi.
Studiare la placenta tra modelli animali e linee cellulari
“I modelli animali disponibili sono molto scarsi e approssimativi” spiega il placentologo Alessandro Rolfo ricercatore dell’Università di Torino e Ceo di Corion biotech, start up che si occupa di sviluppare soluzioni terapeutiche a partire da nuove conoscenze derivate dallo studio della placenta. “L’ideale sarebbe lavorare con i primati, ma per (giuste) ragioni etiche – e di costi – il loro impiego per la ricerca di base è improponibile. D’altra parte, ratti e topolini hanno dato e possono dare informazioni utili, ma non possono essere considerati un modello definitivo, perché le loro placente non hanno la stessa architettura anatomica di quella umana”. Da qui la “fame” dei ricercatori per i modelli in vitro.
Intendiamoci: nei laboratori di tutto il mondo ci sono già varie opportunità. Si possono usare linee cellulari derivate da cellule di placenta, che però non restituiscono la complessità architettonica dell’organo, costituito da vari tipi cellulari organizzati in villi (coriali). Nel laboratorio di Rolfo, invece, vanno per la maggiore gli espianti villari, più completi.
“Sono come bonsai di placenta, ricavati da alberelli villari messi in coltura. Sono tridimensionali e contengono tutti i diversi tipi cellulari della placenta, ma hanno il limite di sopravvivere per breve tempo”. E mentre c’è chi sta mettendo a punto una placenta su chip, il gruppo di Moffett ha puntato tutto sulla realizzazione di un organoide in grado di garantire una certa stabilità a lungo termine, per condurre studi con una certa continuità.
Punto di partenza del lavoro sono state cellule di trofoblasto, il tipo cellulare più numeroso della placenta e a lungo considerato la sua unità funzionale, ricavate dopo interruzione volontaria di gravidanza nel primo trimestre e messe in coltura su una matrice apposita che ne ha consentito la ramificazione e lo sviluppo tridimensionale. Le analisi hanno permesso di confermare che effettivamente queste mini-placente sono molto stabili, hanno strutture simili a quelle dei villi coriali “naturali” e producono una serie di sostanze di origine tipicamente placentare. Tra queste, la gonadotropina corionica o ormone della gravidanza, quello rilevato dai test di gravidanza, anche quelli fai da te sulle urine. Non a caso, test effettuati con le sostanze secrete da questi organoidi hanno dato esito positivo.
Perché è importante studiarla?
La prospettiva, adesso, è impiegarli per lo studio delle primissime fasi della gravidanza, anche quelle che si verificano ancora prima che una donna sappia di essere incinta, e di quei meccanismi patologici che magari hanno origine nelle prime fasi di sviluppo della placenta stessa per poi manifestarsi più avanti nel corso della gravidanza con condizioni come preeclampsia o ritardo di crescita fetale. O utilizzarli per testare la sicurezza di farmaci da impiegarein gravidanza. “Credo che saranno modelli utilissimi, soprattutto se usati in combinazione con gli altri già disponibili, perché anche loro comunque non sono perfetti” commenta Rolfo. Che indica nella mancanza di rappresentatività degli altri tipi cellulari della placenta il limite principale di questi organoidi.
“Per esempio manca del tutto la componente di cellule staminali mesenchimali, che sempre più si stanno rivelando importanti non solo come supporto strutturale della placenta, ma anche per il coinvolgimento nello sviluppo fisiologico della gravidanza, a partire dalla soppressione delle reazioni immunitarie della mamma che le rendono possibile tollerare un feto con un patrimonio genetico per il 50% differente dal suo, e nello sviluppo del sistema nervoso del feto”.
Quello che è certo è che gli organoidi di placenta costituiscono un ulteriore segnale di quanto sia fervida la ricerca in questo settore. “Un altro ambito che ha conosciuto una grande accelerazione negli ultimi anni, anche grazie alle innovazioni tecnologiche, è quello delle cosidette analisi omiche, come genomica, proteomica, metabolomica, metilomica eccetera” afferma Mandò.
Lo stesso gruppo di Moffett aveva pubblicato, poco prima del lavoro sugli organoidi, uno studio di trascrittomica ritenuto importantissimo dalla comunità scientifica perché fornisce una mappa dei geni espressi in circa 70 mila cellule collocate esattamente nella decidua, il punto di contatto tra utero e placenta: una mappa fondamentale per cominciare a costruirsi una visione completa di un organo così straordinariamente complesso come la placenta. Del resto non è un caso che negli Stati Uniti la ricerca sulla placenta sia stata finanziata con un grande progetto governativo ad hoc, lo Human Placenta Project. E anche in Italia, dove pure manca un’attenzione istituzionale a questo tipo di ricerca (ma si potrebbe dire lo stesso in generale), cresce l’interesse per l’argomento, con una manciata di gruppi che ci lavorano attivamente, oltre a quelli di Rolfo e Mandò, spesso nell’ambito di collaborazioni internazionali.
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