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Vasopressina, un’alleata per i disturbi dello spettro autistico?

Due studi, condotti rispettivamente su 223 e 33 pazienti, hanno avuto risultati interessanti ma da interpretare con cautela. Ne parliamo con Stefano Vicari, neuropsichiatra.

La vasopressina può avere un ruolo nel trattamento dei disturbi dello spettro autistico, in bambini o adulti? Due nuovi studi indagano la possibilità, ma serviranno tempo e nuove conferme. Foto: Pixabay

Science Translational Medicine pubblica sull’ultimo numero due studi clinici che indagano l’efficacia della vasopressina in una possibile terapia per i disturbi dello spettro autistico. Il primo studio, diretto da Federico Bolognani e finanziato dalla multinazionale farmaceutica svizzera L. Hoffmann-La Roche, è stato condotto negli Stati Uniti in 26 centri clinici per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico; ha reclutato 223 pazienti che sono stati trattati con il farmaco Balovaptan. Il secondo studio, di Karen J. Parker, ha coinvolto 33 pazienti in cura all’Autism and Developmental Disorders Clinic (ADDC) alla Stanford University.

L’interesse per questi due trial è dovuto al fatto che, a oggi, non c’è un trattamento riconosciuto per i disturbi dello spettro autistico. “Tutto quello che può dare elementi di speranza in questa landa desolata è benvenuto” commenta a OggiScienza Stefano Vicari, docente all’Università Cattolica e responsabile dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, “contemporaneamente, bisogna anche essere molto prudenti perché la trasferibilità nella vita di tutti i giorni dei risultati ottenuti nei trial clinici va sempre verificata”.

Perché la vasopressina

È nota da tempo la proprietà del neuropeptide vasopressina nello stimolare i comportamenti relazionali nei roditori. Gli studi più recenti sugli esseri umani hanno dimostrato la capacità della vasopressina di modulare i circuiti neurali coinvolti nell’ansia, nell’aggressività, nell’accoppiamento e negli atteggiamenti sociali. Dal punto di vista metodologico, l’approccio dei due studi è antitetico: nel primo, ai pazienti viene somministrata per via orale una compressa con un recettore antagonista della molecola vasopressina; nel secondo la vasopressina viene somministrata per via inalatoria.

I risultati del primo studio, dopo 12 settimane, sono un miglioramento sulla scala di Vineland che misura le competenze adattive, ovvero ciò che i ragazzi fanno nella vita quotidiana, come comunicano e come socializzano: i risultati migliori si sono avuti nei pazienti che prendevano la dose più alta di farmaco. Tuttavia, non vi sono stati miglioramenti nella scala SRS-2, misurata dai caregivers, che prende in considerazione i sintomi base dell’autismo, ovvero la ripetitività dei comportamenti e le abilità socio-comunicative.

Alcuni pazienti, va sottolineato, hanno lasciato il trial a causa di effetti collaterali anche gravi: sono stati registrati sette eventi avversi seri in quattro partecipanti, in particolare, in un soggetto trattato con placebo, idee suicidarie e, in quelli trattati con Balovaptan, cinque hanno avuto, rispettivamente, bradicardia, rabdomiolisi (rottura delle cellule del muscolo scheletrico), psicosi, agitazione e sincope. Secondo l’interpretazione del responsabile dello studio, a parte l’episodio di rabdomiolisi, non si sono registrati altri eventi avversi seri con questo trattamento. La somministrazione è stata sospesa in otto partecipanti, di cui un placebo e sette in trattamento con farmaco.

Il secondo studio è un pilot trial in cui 33 pazienti sono stati trattati per quattro settimane con vasopressina per via inalatoria e i risultati sono nettamente migliori nella scala SRS-2, quindi nei sintomi tipici dell’autismo, non vi sono stati effetti collaterali e nessun paziente ha lasciato il trial.

“La grande diversità che noto tra i due studi sono il numero e poi l’età dei pazienti che hanno partecipato” commenta Vicari “perché nel primo si tratta di adulti e nel secondo di bambini. Anche i risultati, misurati con le scale SRS e Vineland, sono diversi. Questo induce a una certa prudenza nel valutare l’effetto reale della vasopressina nel mediare gli aspetti sociali”. Tra le diversità da tenere sempre in considerazione, c’è l’enorme eterogeneicità delle persone dello spettro autistico.


Dottor Vicari, quindi questi studi hanno dei limiti?

Anche se richiedono ulteriori conferme, sono studi promettenti e rappresentano certamente un passo avanti perché, a oggi, avevamo solo dati ricavati dal modello animale, mai direttamente da pazienti. I due trial hanno un target importante perché ad oggi non c’è alcun trattamento, di fatto, capace di risolvere o almeno ridurre i sintomi dell’autismo. Lo studio di Parker potrebbe dare più speranze sugli aspetti core del disturbo ma è un pilot trial fatto su pochi pazienti e, quindi, ancora tutto da verificare.

Quali sono i trattamenti oggi in uso per i disturbi dello spettro autistico?

Sono solo di tipo comportamentale, soprattutto in età evolutiva, ed è importante intervenire molto precocemente. Solo in questo caso, infatti, gli interventi possono migliorare le abilità di comunicazione dei bambini ma molto meno, purtroppo, gli aspetti di relazione e interazione sociale. La ripetitività, la tendenza all’aggressività, i disturbi del sonno possono determinare difficoltà nella gestione dei ragazzi autistici. In questi casi, allora, si possono usare dei farmaci che agiscono sul sintomo ma non modificano il problema. Trovare un farmaco capace di intervenire sui cosiddetti “comportamenti problema” costituisce certamente una sfida di grande rilevanza.

Quali sono i numeri dei disturbi dello spettro autistico?

L’autismo è la forma di disabilità mentale più frequente in assoluto, riguarda almeno un nato su cento e gli ultimi dati parlano addirittura di 1 caso ogni 58 nati. Sulla base di questi dati epidemiologici internazionali si stima che, in Italia, ci sia almeno mezzo milione di persone con autismo. Il nostro centro al Bambino Gesù, forse uno tra i più attivi in Italia, diagnostica circa 600 bambini all’anno, un numero enorme. La diagnosi è certa ai tre anni di età, ma il sospetto si può già avere ai 18-24 mesi. Si tratta di bambini che fanno fatica a entrare in contatto, in relazione e comunicazione con gli altri. Ancora oggi, purtroppo, sono i familiari che per primi si rendono conto della situazione, sebbene molto lavoro sia stato fatto con i pediatri di base. La diagnosi precoce è un elemento critico per poter garantire un’evoluzione il più possibile positiva del disturbo.

Quali sono le cause riconosciute dell’autismo?

Non ci sono diagnosi prenatali, perché non c’è un marker biologico del disturbo, ma sappiamo che c’è una base genetica: non c’è tuttavia un unico gene che determina l’autismo, sono più cause che intervengono. Sappiamo che se una coppia ha un figlio autistico, la probabilità che lo sia anche il secondo sale al 18% e al 26% se il figlio fosse maschio. Oltre alla genetica ci sono importanti modulatori ambientali come l’esposizione in gravidanza ad eventi tossici inquinanti: l’alcol in primis, l’inquinamento da idrocarburi, la grave prematurità e un basso peso alla nascita, l’età paterna superiore ai 50 anni al momento del concepimento. Tuttavia, nessuno di questi fattori di rischio, preso singolarmente, è determinante nell’autismo.

Qual è il ruolo dei familiari e quali speranze possono riporre in questi due studi clinici?

I familiari sono le figure centrali nei disturbi dello spettro autistico. Siamo passati dagli anni Sessanta, in cui la psicanalisi sosteneva un nesso causale tra la mamma e una presunta difficoltà di relazione con il bambino – visione che purtroppo tende ancora oggi a sopravvivere, nonostante non vi siano dati di letteratura a sostegno – fino ai nostri giorni, in cui i genitori sono parte attiva e integrante del trattamento. A mamma e papà si insegna come interagire con il bambino, come favorire la comunicazione tra il bambino e il resto dell’ambiente. È una terapia mediata dai genitori ed è uno dei pochi interventi terapeutici che ha dati di rilevanza scientifica.

I due studi di Bolognani e Parker sono molto importanti: hanno lo stesso meccanismo, che è quello di intervenire sui recettori della vasopressina, e sono rilevanti per i dati che riportano, ma richiedono conferme su grandi numeri. I due studi incoraggiano ad andare avanti ma è ancora prematuro trarre conclusioni.


Leggi anche: Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo

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Federica Lavarini
Dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne, ho frequentato il master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste (SISSA). Sono giornalista pubblicista e scrivo, o ho scritto, su OggiScienza, Wired, La Lettura del Corriere della Sera, Rivista Micron, Il Bo Live, la Repubblica, Scienza in Rete.