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La posta in gioco al vertice sul clima di Madrid

Dal 2 al 13 dicembre la capitale spagnola ospita un summit decisivo per fissare impegni più ambiziosi e scongiurare gli scenari peggiori della crisi climatica

Nella giornata di ieri i delegati di quasi duecento Paesi hanno raggiunto Madrid per dare avvio ai negoziati della COP25, l’atteso vertice mondiale sul clima delle Nazioni Unite. La posta in gioco è alta: convincere i governi del mondo a darsi obiettivi più ambiziosi per ridurre le emissioni di gas serra. Diversi studi hanno infatti evidenziato che gli impegni volontari dichiarati dopo l’accordo di Parigi sul clima non sono affatto sufficienti per limitare l’aumento delle temperature al di sotto della soglia di sicurezza di 1,5°C. Tanto che persino il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha dichiarato: «Il punto di non ritorno è ormai in vista e si avvicina sempre più in fretta».

COP25

Il decennio decisivo

L’ultimo campanello di allarme è suonato la settimana scorsa quando il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep) ha pubblicato la decima edizione dell’Emission Gap Report, il rapporto annuale che fa il punto sui progressi per ridurre le emissioni. Nelle sue pagine si legge infatti che, persino se tutti gli impegni di riduzione presi finora venissero rispettati, la temperatura media globale salirebbe comunque di 3,2°C entro fine secolo, il doppio di quanto auspicato dagli accordi di Parigi. Per riuscire a contenere il riscaldamento del pianeta entro 1,5°C, gli esperti delle Nazioni Unite hanno calcolato che, nel prossimo decennio, dovremmo ridurre le emissioni globali del 7,6% ogni anno. In caso contrario oltrepasseremo la soglia di sicurezza prima ancora del 2030.

Il problema è che, purtroppo, nonostante tutte le promesse e gli sforzi fatti, le emissioni di gas serra non accennano a diminuire. Anzi, nel 2018 sono cresciute ulteriormente dell’1,7% e secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale la concentrazione media di CO2 nell’atmosfera ha stabilito il nuovo record di 407,8 parti per milione. È dunque evidente che per invertire la tendenza sono necessarie azioni di mitigazione assai più drastiche e incisive.

Ecco perché al centro dei negoziati del summit di Madrid ci sarà l’auspicata revisione al rialzo dei cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDC), cioè gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra che le nazioni firmatarie dell’accordo di Parigi sono tenute a fissare per contenere il riscaldamento globale «ben al di sotto di 2°C» e meglio ancora entro un grado e mezzo. Il rapporto dell’UNEP evidenzia però come al momento solo cinque dei venti Paesi a economia avanzata che compongono il G20 – a cui si deve il 78% delle emissioni globali – abbiano stabilito come intendono raggiungere l’obiettivo di azzerare le emissioni nette di gas serra.

Rispettare le promesse

Oltre a fissare obiettivi più ambiziosi, il vertice di Madrid dovrà chiarire come tradurre in realtà le promesse fatte. Uno dei nodi da sciogliere riguarda la creazione di un sistema per lo scambio di quote di emissione di CO2, previsto dall’articolo 6 dall’accordo di Parigi ma ancora oggetto di discussione tra gli esperti, divisi sulla sua efficacia nell’incentivare la decarbonizzazione.

Un’altra questione da affrontare è la nostra dipendenza dai combustibili fossili che, nonostante la disponibilità di fonti rinnovabili sempre più competitive, ancora oggi forniscono circa l’80% dell’energia primaria mondiale, anche grazie ai generosi incentivi elargiti da molti governi. Un’indagine dello scorso giugno condotta dall’International Institute for Sustainable Development (IISD) ha svelato che ogni anno le fonti fossili ricevono sussidi per 372 miliardi di dollari, quasi il quadruplo della somma destinata alle fonti rinnovabili. Secondo gli esperti dell’IISD basterebbe dirottare il 10-30% di questi fondi verso le rinnovabili per finanziare la transizione energetica di cui abbiamo urgente bisogno.

Ecco perché anche il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres non ha usato eufemismi per condannare i sussidi alle fonti fossili, affermando che «stiamo usando il denaro dei contribuenti – cioè i nostri soldi – per rendere più violenti gli uragani, diffondere la siccità, sciogliere i ghiacciai, sbiancare le barriere coralline. In una parola, per distruggere il mondo». Del resto, anche i più compassati esperti dell’UNEP considerano gli odierni investimenti nei combustibili fossili del tutto incompatibili con la lotta ai cambiamenti climatici: secondo le loro stime, gli stessi governi che firmano accordi per ridurre la CO2 pianificano di produrre più del doppio del gas, del petrolio e del carbone che possiamo permetterci di bruciare per contenere il riscaldamento del pianeta a 1,5°C.

Un quarto di secolo di vertici sul clima

Nonostante tutte le contraddizioni, i vertici sul clima restano uno strumento irrinunciabile. Poiché infatti la crisi climatica è un problema globale, le politiche di mitigazione, per essere efficaci, non possono che essere condivise a livello internazionale. Finora, tuttavia, le aspettative sono state deluse perché, alla prova dei fatti, la selva di protocolli, trattati e convenzioni non è ancora riuscita a invertire la tendenza e a ridurre le emissioni.

Dal 1994, cioè da quando è entrata in vigore la convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (nota agli addetti ai lavori come UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change, e siglata al termine dello storico Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992), le conferenze mondiali sul clima si susseguono con cadenza annuale. La COP25 è appunto la 25esima “Conferenza delle parti” organizzata per concretizzare gli obiettivi della convenzione quadro sul clima, oggi rafforzata dall’accordo di Parigi con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra e contenere il riscaldamento globale.

Nonostante la storia degli accordi internazionali sull’ambiente abbia conosciuto anche importanti successi – a partire dal Protocollo di Montereal che nel 1987 vietò l’impiego dei clorofluorocarburi (CFC) responsabili del “buco dell’ozono”, l’assottigliamento della fascia di ozono presente nella stratosfera che ci protegge dalla radiazione solare ultravioletta, trovare rimedio al riscaldamento globale si è rivelato molto più complesso. I gas serra, infatti, a differenza dei CFC, sono composti naturali e non possono certo essere messi al bando. Inoltre, mentre abbiamo potuto trovare alternative ai CFC senza rinunciare a frigoriferi e bombolette spray, ridurre le emissioni di gas serra significa ripensare l’intero modello di sviluppo delle società industriali fondato sui combustibili fossili.

Raggiungere un accordo condiviso, inoltre, è reso ancora più complicato degli enormi interessi in gioco e dal fatto che ogni Paese contribuisce in misura diversa alle emissioni di gas serra: occorre tenere conto sia delle responsabilità storiche (secondo l’IPCC, oltre il 50% delle emissioni prodotte tra il 1850 e il 2010 sono da attribuire agli Stati Uniti e all’Europa, mentre quelle di Cina, India e Brasile sono intorno al 15%), sia dell’odierno contributo di Paesi emergenti e densamente popolati come Cina e India, ma anche delle enormi disparità nelle emissioni pro capite tra le nazioni ad alto e basso reddito.

E se da un lato l’accordo di Parigi ha impegnato per la prima volta tutte le nazioni, industrializzate e non, a fare la propria parte, dall’altro gli obiettivi di riduzione sono assunti da ogni Paese su base volontaria, e dunque non sono previste sanzioni per chi non rispetterà gli impegni. Del resto, un trattato vincolante condiviso da tutti gli Stati del mondo, oltre ad apparire utopistico, rischierebbe di essere caratterizzato da impegni ancora meno ambiziosi. Per il filosofo Klaus Meyer-Abich è addirittura un assioma della diplomazia: qualsiasi accordo internazionale frutto di compromessi fra governi con interessi divergenti porta inevitabilmente a misure limitate e inefficaci.

La pressione della società

Il successo o il fallimento dei negoziati sul clima dipenderà tuttavia anche dalle pressioni che la società civile sarà in grado di esercitare. Negli ultimi anni una mobilitazione dal basso sempre più ampia ha portato la crisi climatica all’attenzione dell’opinione pubblica, senza però riuscire a conquistare una posizione di rilievo nell’agenda politica di molte nazioni.

Purtroppo, l’improvviso spostamento del vertice da Santiago del Cile a Madrid, deciso a causa dei tumulti che da settimane scuotono il Paese sudamericano, potrebbe ostacolare la partecipazione degli attivisti e dell’associazionismo ambientale, che da sempre accompagna i lavori per fare pressione sui delegati governativi. Anche Greta Thunberg, la giovane attivista che ha ispirato il movimento Fridays For Future, ha dovuto cercare un passaggio in barca a vela dell’ultimo minuto per attraversare l’Atlantico e partecipare al vertice di Madrid.

È comunque probabile che, in ogni caso, più gli impatti della crisi climatica diventeranno tangibili, più sarà ineluttabile ricorrere a drastiche misure di mitigazione e adattamento. La speranza è che ciò accada prima che la vita di milioni di persone sia messa a repentaglio dagli eventi climatici estremi che già si osservano in molte regioni del pianeta.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).